Povero Maramaldo, non uccise un uomo morto

Nella famosa invettiva «Tu darai a un morto!» o, nella versione accreditata da Benedetto Varchi, «Tu ammazzi un uomo morto!», versione che noi tutti abbiamo imparato a scuola, sono racchiusi il dramma e la leggenda epica di Francesco Ferrucci, il capitano delle milizie fiorentine che il 3 agosto 1530 si scontrarono con gli Imperiali di Carlo V a Gavinana, nell’alto Pistoiese e ne furono sconfitte. Ma a chi ebbe a rivolgersi, in quei tragici, ultimi istanti della sua vita il Ferrucci? Lo sanno anche i bambini di terza elementare: a Fabrizio Maramaldo, napoletano, condottiero di parte avversa, che gli aveva appena trapassato, chi dice la gola, chi il petto con la spada.
Ma se non fosse andata proprio così? Insomma, se quella vigliaccata il Maramaldo non l’avesse compiuta e il prode fiorentino fosse invece morto in battaglia per conto suo o finito da qualcun altro? Si sa che il primo in assoluto che accreditò per iscritto lo scontro del Ferrucci, gravemente ferito, con Fabrizio Maramaldo fu il prelato e storico comasco Paolo Giovio (1483-1552), che trascorse la sua vita e scrisse le sue opere tra la Toscana e Roma. Narra il Giovio: «Poi il Ferruccio, così armato com’egli era, fu menato dinanzi al Maramaldo. Allora il signor Fabrizio gli disse: pensasti tu mai quando crudelmente e contra l’usanza della guerra, tu impiccasti il mio tamburino a Volterra, dovermi venir nelle mani? Rispose egli: questa è una delle sorti che porta la guerra, la quale guerreggiando a te può ancora avvenire; ma quando anco tu m’ammazzi, non perciò né utile né onorata lode t’acquisterai della mia morte. Il signor Fabrizio tuttavia... gli fece cavare la celata e la corazza, e gli passò la spada nella gola».
A dire il vero, l’unica fonte da cui trassero notizie gli storici fiorentini, da Filippo Sassetti a Jacopo Nardi, a Benedetto Varchi, a Bernardo Segni e a Scipione Ammirato, fu appunto il Giovio e nulla si sa da dove egli traesse le informazioni che ci ha trasmesso con la dubitosa Historia sui temporis. I cronisti toscani più antichi sono infatti concordi nell’affermare che il Ferrucci fosse morto combattendo e lo stesso riportano Ferrante Gonzaga e altri, come il Guazzo nelle Historie Moderne o l’Alberti nella sua Descritione dell’Italia oltre ai rapporti di alcuni ambasciatori accreditati a Firenze.
Più tardi si cominciò a dire che il capitano fiorentino fosse stato ucciso dopo la battaglia. Ma non ancora da Maramaldo. Lo storico Cambi accusa Alessandro Vitelli, che «come traditor dell’uso della guerra lo ammazzò a sangue freddo». Ma allora il Maramaldo? Questi, in relazione al Ferrucci, appare per la prima volta in un componimento poetico del lucchese Donato Callofilo, La Rotta del Ferruccio, nel quale pescò a piene mani Paolo Giovio. Un poemetto, si badi bene, non una testimonianza storica.
Parliamo del tamburino. Questi difendeva la città di Volterra e il Maramaldo tentava di espugnarla. A un certo punto il comandante degli Imperiali mandò un parlamentare accompagnato da un tamburino. Pare che durante le trattative quest’ultimo girellasse lì intorno, interessandosi un po’ troppo allo stato delle difese dei Volterrani. Così il Ferrucci, senza tanti complimenti, lo fece dondolare dalle mura con una corda al collo. Fabrizio Maramaldo la faccenda del tamburino se la legò al dito. Anche il già citato Benedetto Varchi, sia pure con qualche crudele sfumatura che non va certo a onore del Maramaldo, ci dice che, tutto sommato, non fu lui ad uccidere il Ferrucci, anzi pare che il colpo finale glielo sferrasse un ufficiale spagnolo, gentiluomo del principe d’Orange.
E sulla stessa linea abbiamo Pierre de Bourdeille, abate di Brantôme, cortigiano di Enrico III di Francia, il quale afferma che per vendicare, appunto, il principe Filiberto d’Orange, capo degli Imperiali, ucciso nello scontro di Gavinana da tal Niccolò Masi, allorché ebbe davanti il Ferrucci: «ce brave Maramaldo» (sic) gli dette «un gran coup dans le corps» e «lo fece finire da altri».
Che si trattasse di vendicare l’Orange o il tamburino di Volterra è, però, ai fini della nostra ricerca, la stessa cosa. Comunque, Fabrizio Maramaldo dette probabilmente una mano a ridurre a mal partito il prode fiorentino, ma, quasi certamente non l’ammazzò di persona. Il condottiero - d’antica famiglia napoletana - ebbe un’infinità di difetti, ma nessuno potrà negare che egli fosse un soldato valoroso.

Eppure il destino ha voluto che egli regalasse alla lingua italiana i vocaboli «maramaldo» e «maramaldeggiare», col significato di chi si accanisca vigliaccamente contro qualcuno in stato di palese inferiorità. Forse sotto tale aspetto l’episodio finale della battaglia di Gavinana, tramandatoci dalla storia e dall’iconografia, fu un falso storico.

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