Primi schiaffi a Franceschini, nel Pd è già "il vicedisastro"

Aveva chiesto ai suoi: basta scontri sui giornali. Ma Cacciari e Renzi lo deridono subito. E lui corre al Tg1: stipendi più alti

Primi schiaffi a Franceschini, nel Pd è già "il vicedisastro"

Roma Vicedisastro, punto. E meno male che aveva esordito chiedendo agli «amici» di partito una moratoria sulle interviste e sugli improperi a mezzo stampa. Ma intanto Dario arriva nella stanza dei bottoni, e si porta dietro una nuova tribù: se non un nuovo vento, perlomeno una brezza di new entry e rimescolamenti nella nomenklatura di Largo del Nazareno. Certo, ieri mattina, aprendo La Stampa di Torino, Dario Franceschini ha iniziato la sua prima settimana da leader del Partito democratico, ritrovandosi incollata sulla pelle quella definizione geniale, politicamente scorretta e feroce, partorita dall’«Obama italiano» (Time dixit) Mattia Renzi: «Hanno eletto il vicedisastro». Segue spiegazione, consegnata alla penna di Francesca Schianchi, con un sillogismo non meno caustico: «Io non avrei votato per Dario: se Veltroni è stato un disastro, non si elegge un vicedisastro». Capita, certo.
Peccato che nello stesso giorno, sia tornato a tuonare il signore della Laguna, alias Massimo Cacciari: «Che Dio accolga coloro che vogliono perdere!», ha esordito il sindaco di Venezia, grande irriducibile bastiancontrario della sinistra italiana. Dopodiché si è concesso una raffica di sciabolate niente male: «Franceschini era la soluzione più scontata - dice - e anche la peggiore. Almeno le primarie avrebbero creato un po’ di movimento anche se non sarebbero andate assolutamente bene. L’unica soluzione era il congresso. Ma così hanno deciso... pace all’anima loro». Non solo: «Certo che un partito chiamato a decidere il leader tra Franceschini e Parisi rasenta il ridicolo».
Insomma, Franceschini parte dalla sua città, esibendo i primi assaggi del suo nuovo portafoglio mediatico, portando sotto i riflettori mediatici nazionali una bella figura, quella di suo padre, con il dettaglio curioso di quella Costituzione d’epoca, ben conservata in una copia originale e ingiallita della Gazzetta ufficiale. Però un attimo dopo, l’onda d’urto del mal di pancia lo investe. Questa volta passando attraverso il sorriso ironico di Emma Bonino: «Ovviamente uno si lascia sempre la possibilità di vedere come si muove, ma per quanto siano stati pochissimi i rapporti avuti fino ad ora con Franceschini, non mi pare brillantissimo». E poi, con una critica politica più articolata: «Dell’assemblea del Pd ho avuto invece l’impressione che l’esigenza fosse di chiudere in fretta la partita, di trovare una soluzione qualunque perché rimangono tutta una serie di non detti che poi ha ribadito Parisi sul perché delle dimissioni di Veltroni». Ancora Mattia Renzi, come un caterpillar: «Se l’unica alternativa a Franceschini è Parisi, il rappresentante dell’ala nostalgica, quella che accende il cero a San Romano, è normale che Dario prenda mille voti...». Già, Parisi. Ieri un fuori onda del segretario rivelava di averlo aiutato a raccogliere le firme, per farne l’opposizione di sua maestà. E l’ex ministro della Difesa lo punzecchiava: «Dal “ma anche” si passa al “sì però”». Visto il clima, Franceschini come primo passo ha cercato di smuovere le acque provando a dare un segnale sull’economia: «Indennità di disoccupazione per tutti - ha detto al Tg1 delle 20 - aumentare gli stipendi più bassi, non dimenticarsi di chi da solo non ce la fa».
E intanto, nel Pd, salgono improvvisamente le quotazioni del Franceschini Boys, una famiglia in parte storica e in parte acquisita. Al fianco del novo leader, come un’ombra, c’è il fedelissimo Piero Martino: portavoce, consigliere politico e molto di più. Quasi miracolato alle politiche con un seggio in Sicilia, Martino si prepara a diventare un nuovo Bettini: più potente, più discreto, e sicuramente più magro. Un altro grande emergente è Roberto Di Giovanpaolo, altro compagno di battaglie antiche, ai tempi dei giovani democristiani. Il nucleo di ferro della squadra, infatti si cementa fra i govani dello scudocrociato, intorno alla rivista che Franceschini diresse, Settantasei. E che prendeva il suo nome, in una logica quasi apostolica, dall’anno dell’ascesa di Benigno Zaccagini alla segreteria. C’era già, in quel gruppo, un giovanissimo Marione Adinolfi, il blogger che fino a ieri era il capofila dei dissidenti, e che oggi - per le sue doti di polemista coriaceo - potrebbe diventare la punta di lancia della squadra di mischia franceschiana. Sempre dalla Dc e dal Ppi viene un altro fedelissimo, il deputato Francesco Saverio Garofani (che di Adinolfi è l’essatto opposto, un doroteo antropologico). Dal mondo dell’Azione cattolica viene una pasionaria bionda, Chiara Geloni, oggi vicedirettrice di Europa (la più giovane del gruppo). E dal comune ceppo postdemitiano arriva invece la ministra ombra Pina Picierno. Dal gruppo dei giovani popolari - la seconda generazione franceschiana - arriva anche il ghost writer del neo segretario, Gianluca Lioni: un quadro intellettuale sardo che è stato al vertice dei giovani della Margherita. Mentre acquisiti dalla diaspora prodiana sono un giovane deputato come Alberto Lo Sacco (che mosse in primi passi al fianco di Marina Magistrelli) e l’ex ulivista Gianclaudio Bressa. Più grandi, ma sempre fidatissimi, sono uomini come Giorgio Merlo e Antonello Soro. Certo il tic curioso del neosegretario, nel discorso di investitura, era il continuo correre con la mano a tirarsi su i pantaloni. Che sia dimagrito per lo stress? Di sicuro fra le doti di Franceschini c’è una certa coriaceità: non sarà facile vedergli calare i pantaloni.

Perché sarà pure vicedisastro, certo. Ma nessuno finora ha ricordato che il suo idolo, «Zac» era stato eletto come segretario di transizione. Rimase in carica quattro anni. Se solo potesse replicare, Dario ci metterebbe la firma subito.

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