Un processo che ci insegna la giustizia giusta

La giusti­zia ame­r icana sa essere spie­tata e prurigi­nosa, anche troppo, ma al primo segno che qualcosa va storto per l’accu­sa tutto cambia. La difesa passa all’offensiva, il diritto della perso­na prende il sopravvento e il giu­dice terzo, alla velocità del suo­no, certifica il nuovo stato delle cose in favore dell’accusato

Un processo che ci insegna la giustizia giusta

La giusti­zia ame­r icana sa essere spie­tata e prurigi­nosa, anche troppo, ma al primo segno che qualcosa va storto per l’accu­sa tutto cambia. La difesa passa all’offensiva, il diritto della perso­na prende il sopravvento e il giu­dice terzo, alla velocità del suo­no, certifica il nuovo stato delle cose in favore dell’accusato.

La cameriera del Sofitel di New York, che ha accusato l’ex nume­r­o uno del Fondo monetario inter­nazionale di averle usato violen­za, è sospettata a un certo punto di poter essere un teste d'accusa infedele, perché ha collegamenti con una rete criminale e in una telefonata intercettata (il cui te­sto integrale resta riservato) chiacchiera dei vantaggi che po­trebbe ottenere sfruttando il suo caso giudiziario. Il quadro si rove­scia subito. Il carattere coattivo dell’atto sessuale, il tentato stu­pro, è messo all’istante in discus­sione per gli indizi emersi sul­l’inattendibilità della fonte. L’im­putato, Dominique Strauss-Kahn, esce subito dalla condizio­ne di fermo domiciliare, gli viene restituita la cauzione, e tutto è pronto per una inversione di rot­ta del processo, che forse non si farà proprio. L’avvocato dell’ac­cusa, che parla a nome del popo­lo, «the people» è la formula tecni­ca che lo definisce davanti al giu­dice, è costretto a rivedere tutto il dossier, non esiste partito preso, la figuraccia incombe e ha un prezzo, la mancata rielezione del capo accusatore al posto di di­strict attorney , titolo corrispon­dente a una specie di procurato­re capo della Repubblica. Gli av­vocati della difesa hanno lo stes­so identico potere dell’accusa, e lo usano a mani basse, indagan­do liberamente, seminando dub­bi crudeli, sfruttando ogni vantag­gio acquisibile, preparandosi a demolire l'impianto inquisitorio. Il processo si rivela uno scontro durissimo ma flessibile, le proce­dure sempre attente alla reversi­bilità, nessun passo è gratuito e non c’è spa­zio per il pregiudizio corporati­vo, non c’è la contiguità fisica e psicologica del Pm e del giudice, non c’è lo stato di minorità del­l’avvocato difensore. Chi deve di­mostrare l'esistenza di un reato e di un reo è sotto il controllo elet­torale dell’opinione pubblica e dei suoi giornali. Il New York Ti­mes, che ha pubblicato corsivi ro­venti contro la pretesa di impuni­tà per il macho affiorata in qual­che commento europeo a quella maledetta storia, nelle cronache si è attenuto al rigore garantista, e non ha esitato un attimo a ren­dere noto che nella testimonian­za della cameriera, mai nomina­ta (né lei né i suoi parenti), si era aperta una falla capace di affon­dare nel disdoro il lavoro della polizia.

Vedremo come va a finire que­sta storiaccia, che ha già avuto conseguenze spettacolari e un esito politico di prima grandez­za sia nella guida di un’agenzia decisiva per la finanza mondiale sia nella prospettiva delle immi­nenti elezioni presidenziali in Francia, per le quali Strauss­Kahn era piazzato in posizione eminente, mentre i sondaggi lo davano quasi certo vincitore. In­tanto possiamo fare paragoni amari.

In Italia, al processo di primo grado contro Adriano Sofri per l’assassinio del commissario Ca­labresi, nel dibattimento si accer­tò, pochi giorni dopo la sua aper­tura, che l’accusatore non era sta­to folgorato dall’improvvisa con­versione che diceva di aver vissu­to, confessandosi con un prete, ma era stato prima, e per molti giorni, in una caserma dei carabi­nieri, e per giunta non era stato lui a recarsi dai carabinieri ma vi­ceversa. Il trattamento preventi­vo e segreto di un teste d’accusa, scoperto a sorpresa nel corso del­la deposizione «ingenua» di un parroco, sarebbe stato motivo sufficiente per una immediata procedura di messa in mora del processo all’americana. In Italia passò come un dettaglio minore, sostanzialmente irrilevante.

Ma prendiamo un altro caso. Secondo la testimonianza dell’al­lora procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, Anto­nio Di Pietro, quand’era ancora Pm, avrebbe detto di Berlusconi, la preda sistematica da molti an­ni dell’accusa presso il tribunale di Milano: «Io a quello lo sfa­scio».

Una prova tanto evidente di pregiudizio ambientale non avrebbe mai consentito agli in­quirenti americani di continua­re serenamente il loro lavoro di demolizione ad personam. Da noi la faccenda fu trattata come una barzelletta.

Il processo americano, con tut­ti i suoi limiti, si chiama fair trial, giusto processo. Il nostro è sem­plicemente un processo ingiu­sto.

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