È stato un processo politico e lo ha seguito una esecuzione politica. Politici erano i giudici, il governo che li ha nominati, la scelta di tempo per mettere il cappio al collo di Saddam Hussein. Non poteva essere altrimenti: politico era lui, politici sono stati i suoi crimini, politiche le vicende che hanno portato prima allinstaurazione poi allabbattimento del suo regime. E politica è la speranza, la necessità del popolo iracheno di cominciare a trovare un minimo di serenità e di concordia dopo mezzo secolo di dittature del terrore, tre guerre, la distruzione della società, una guerra civile in corso mossa dallodio tribale e dal fanatismo religioso. Questo è lo sfondo su cui va vista la messa a morte, oltretutto frettolosa, di Saddam Hussein, mettendo momentaneamente da parte, se si vuole dare un giudizio storico e concreto, sia il ripudio e la ripugnanza, ancorati nella evoluzione morale dellEuropa (e condivisi da chi scrive) sia lindignazione altrettanto profonda e destinata a durare per i crimini commessi o ordinati da Saddam Hussein durante il suo lungo «regno», eguagliati da pochi altri tiranni nella storia moderna, e superati probabilmente soltanto da quelli del beccaio khmer rosso Pol Pot, che sterminò un cambogiano su tre (e che è morto nel suo letto).
Un giudizio politico, dunque, è quello che le circostanze richiedono e in cui dovrebbero confluire le considerazioni che riguardano lIrak e il popolo iracheno e le risonanze dellevento nella più vasta area mediorientale e, sotto qualche rispetto, nel mondo. Cè dunque da chiedersi in primo luogo se sia stato un bene o un male. Non luccisione di Saddam Hussein ma il suo processo. Se i soldati americani non avrebbero fatto meglio, scovatolo nel suo nascondiglio, nel «buco di talpa» in un campo, a premere il grilletto, magari invocando, come così spesso si fa, un «tentativo di fuga». Oppure - e sarebbe stato forse anche meglio - se gli avessero messo le mani addosso i suoi connazionali prendendo dassalto uno dei tanti palazzi in cui egli si annidava per dominare. Una vendetta a sangue caldo. Un giudizio sommario, come quello che toccò a Nicolae Ceausescu, oppure, per rimanere in argomento, alla famiglia reale irachena, che fu letteralmente fatta a pezzi dai fanatici seguaci dei golpisti di cinquantanni fa, che a loro volta furono scannati quando al potere arrivò, con gli stessi metodi, il partito nelle cui file stava crescendo Saddam Hussein.
Se le cose invece sono andate diversamente dipende soprattutto dagli Stati Uniti. Non da Bush solamente, ma da una tradizione radicata in alcuni aspetti della cultura americana: la fiducia esemplare nella Legge, il bisogno condiviso di fare Giustizia, il confine molto labile fra questultima e la vendetta. Ciò che condusse a Norimberga, a un processo che volle essere soprattutto «educativo» e che almeno in parte raggiunse il suo scopo. Luccisione sommaria di un dittatore non è, per gli americani, una soluzione, non è un rimedio sufficiente. Occorre metterlo alla berlina, utilizzare il dibattito per spogliare i delitti da ogni mantello ideologico. Uno spettacolo pedagogico, che però non prevede la remissione della pena a spettacolo concluso. Proprio i dubbi sollevati da molti sulla legalità formale di quel processo ha indotto il mondo civile a trasformare quel procedimento di eccezione in regola, in legge internazionale. Solo che in Irak la situazione era diversa, i delitti di Saddam erano stati compiuti quasi esclusivamente contro suoi concittadini e quindi il processo dovevano farglielo gli iracheni. Quello di cui pare si sia tenuto poco conto è il fatto che gli «iracheni» come popolo non esistono, mentre esistono i curdi, i sunniti e gli sciiti.
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