In Italia le intercettazioni telefoniche sono straordinariamente superiori a qualsiasi altro Paese del mondo, e soprattutto succhiano un terzo del budget per la Giustizia. Nei mitici Stati Uniti sono diventate 1.700 all’anno solo a partire dall’11 settembre 2001: prima erano meno di mille. A Potenza, nel 2006, hanno speso 6 milioni di euro per intercettazioni legate a indagini dall’esito ridicolo; in tutto il Texas, nello stesso anno, hanno autorizzato solo cinque intercettazioni.
Le intercettazioni vengono spesso indicate come una scorciatoia rispetto alle indagini tradizionali: ma è una verità parziale e ingenerosa. La maggior parte delle intercettazioni vengono richieste dalle forze di polizia: e il paradosso è che le forze di polizia abbondano in intercettazioni per risparmiare sugli uomini, altrimenti impiegati in attività di controllo. Qualche direttiva del ministero dell’Interno potrebbe già fare molto: ma il problema per cui si litiga da anni, di fatto, attiene a intercettazioni che riguardano quasi sempre persone note (i cosiddetti colletti bianchi) e che è quasi sempre la magistratura a gestire. Sono soprattutto le persone note a finire sui giornali: è naturale che il problema della privacy, che pure riguarda tutti i cittadini, si ponga a partire da loro.
La soluzione al dilemma delle intercettazioni telefoniche, in teoria, era già contenuta nel Codice di procedura penale del 1989, in particolare agli articoli 114 e 329: si sanciva che le indagini sono segrete mentre il processo è pubblico. Andare a ricostruire come il significato originario di queste norme sia stato svuotato e stravolto, ora, è inutile: prassi, consuetudini e giurisprudenza hanno favorito l’attuale colabrodo. La violazione del segreto istruttorio non esiste più, e se esiste non ha ufficialmente colpevoli: non i giornalisti (la cui deontologia obbliga a pubblicare le notizie, non a ometterle) e non i magistrati (non usi a indagar su se stessi) e non gli avvocati (che fanno gli affari loro o del loro cliente) e non ancora i cancellieri, poliziotti, vigili urbani e altre categorie che spesso passano le carte.
Di fronte a tutto questo, miscelate o alternative tra loro, le strade possibili appaiono tre: o si restringono i reati che prevedano le intercettazioni (strada indicata come prediletta da Silvio Berlusconi) o si restringe l’uso delle intercettazioni indipendentemente dai reati (strada indicata come prediletta dal ministro Alfano) o si restringe la possibilità di pubblicare le intercettazioni indipendentemente da tutto. La strada migliore, a opinione di chi scrive, potrebbe rifarsi a quanto elaborato nelle due scorse legislature e ben condensato nell’abortito decreto Mastella, peraltro votato alla Camera da maggioranza e opposizione: sancire nuovamente, ossia, che le indagini sono segrete e che il processo è pubblico, principio basilare di quel rito accusatorio che nel 1989 si cercò vanamente d’introdurre. E in caso di violazione, multe salate.
Se un principio del genere dovesse passare, e una legge funzionare, ci accoderemmo a Paesi ritenuti più civili del nostro: a contare sarebbe essenzialmente il processo, le sue risultanze, le prove, le sentenze. Tanti colleghi ora strepitano, ma le notizie potrebbero uscire lo stesso, anche se non sotto forma di trascrizione di verbale o di intercettazione. Il contenuto delle carte, qualora costituisca notizia, potrebbe comunque essere riassunto: ma niente pruriginosi colloqui telefonici privi di rilevanza penale, per capirci.
A margine del decreto Mastella si equivocava a proposito di una parte secondo la quale «Non possono essere pubblicati gli atti del fascicolo del pm se non dopo la pronuncia della sentenza d’appello»: ma questo non significherebbe che non potrebbero essere pubblicati indizi che accusino chicchessia, ma solo che non sarebbero pubblicabili le carte dell’accusa che non assurgono a valore di prova, carte che dunque non verrebbero neppure esibite in aula: i processi del resto vengono trasmessi in televisione, è quindi evidente che i suoi contenuti potranno essere trascritti come sempre. Ciò che non si potrebbe fare, se una legge del genere dovesse passare, è l’estrarre dal cappello carte o intercettazioni prive di rilevanza penale, ma che frattanto possano mediaticamente danneggiare gente che magari non verrà neppure rinviata a giudizio o peggio ancora che verrà assolta. Costituirebbe notizia solo ciò che gli organi giudicanti avessero ammesso a valore probatorio, ciò che insomma reggesse al vaglio del processo: l’arrosto e non il fumus.
In definitiva: si potrebbe raccontare ciò che conta senza poter piegare un verbale o un’intercettazione a tesi arbitrarie: più delle indagini conterebbe quel dibattimento che in Italia, spesso, dimentichiamo prima ancora che sia cominciato. Più degli indagati conterebbero i condannati. Potrebbe finire l’era della copisteria giudiziaria per lasciar spazio non alle tesi, alle accuse, al fango: alle notizie. Pare poco? Sarebbe una rivoluzione.
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