Prodi si fa coraggio ma la sua stagione durerà pochi mesi

Paolo Armaroli

Dismessa la tuta da podista, tanto più che marciare sarà costretto a marcire, Romano Prodi ha indossato le vesti di Tartarino di Tarascona. Ma sì, il famoso personaggio uscito dalla penna di Alphonse Daudet che le sparava più grosse che poteva. Ora, va bene che Parigi vale una messa. Ma la sua messa cantata volta a salire le scale di Palazzo Chigi non convince affatto. Per rendersene conto basta riportare i memorabili detti pronunciati in questi giorni da un Professore che prima delle elezioni era alle stelle e dopo il voto si trova, povero cristo, nelle stalle e nello stallo.
Ma che cosa va dicendo il Nostro? Dopo aver letto qui di seguito le sue «sparate», cari lettori, vi stropiccerete gli occhi pensando di aver capito male. Quando si dice il genio, ha coniato un suo motto: «L’importante è essere decisi e compatti». Mentre tutti sanno che la sua coalizione è costituita da un pugno d’uomini indecisi a tutto e ha la stessa compattezza della ricotta. Ancora: il mio governo «avrà l’impronta forte del primo ministro». E si esalta constatando che «ci hanno preferito in tutti e cinque i continenti del mondo!». Insomma, il mancato successo può dare alla testa.
La verità è che Prodi non può contare sul diritto della forza in quanto non ha alle spalle un partito, è un Giovanni senza terra, può contare solo su una dozzina di parlamentari. E si è sentito dire da Fassino e Rutelli che, in attesa della costituzione alla Camera del gruppo unico dell’Ulivo, farebbe bene a iscriversi temporaneamente al gruppo misto. Uno schiaffo bello e buono. Ma il Professore non può fare assegnamento neppure sulla forza del diritto. Perché le istituzioni stanno in mezzo al guado. Quelle vecchie sono in bilico e quelle nuove, rappresentate dalla riforma costituzionale di Berlusconi, dovranno superare a giugno la prova referendaria.
A questo punto ci si aspetterebbe che Prodi e i suoi cari si mordessero le mani. Hanno detto no e poi no alla riforma costituzionale. Ma se essa fosse già in vigore, avrebbe giovato al Professore. Non più presidente del Consiglio ma primo ministro, nominerebbe e revocherebbe i ministri, avrebbe un rapporto fiduciario con la sola Camera e perciò potrebbe superare il veto del Senato, nonché beneficiare di un federalismo solidale e non scombinato come quello della riforma del Titolo V della Costituzione varata dal centrosinistra quando era in maggioranza. Ma, si sa, Iddio acceca chi vuol perdere. E così, come se nulla fosse, il Professore va dicendo che uno dei primi impegni del suo governo sarà quello di «cancellare, tramite referendum, la pessima riforma della Costituzione varata dal centrodestra». Tafazzi docet.
Prima delle elezioni non avremmo scommesso un euro bucato sulla resurrezione per via referendaria di una riforma costituzionale data dai soliti chiaroveggenti per morta e sepolta. Adesso invece siamo convinti del contrario: basta crederci. Le bugie hanno le gambe corte e il tempo è galantuomo. Perfino studiosi di sinistra ora ammettono che i vari Scalfaro, Bassanini, Elia hanno esagerato con le loro critiche corrosive. La resurrezione della riforma non farebbe del primo ministro un dittatore, sveltirebbe il procedimento legislativo, esalterebbe il ruolo di garante proprio del capo dello Stato e ritrasferirebbe al potere legislativo statale materie quali l’energia, essenziali per lo sviluppo economico. E poi la riforma oggi ha buone probabilità di successo in quanto, dato lo stallo politico, rappresenterebbe una ragionevole via d’uscita. Parliamoci chiaro. Il nuovo governo, chiunque lo guiderà, ballerà una sola estate.

Perciò una riforma pronta all’uso gioverebbe tanto al governo che seppellirà quello transitorio dopo le elezioni della prossima primavera, quanto all’opposizione, che si vedrà riconosciuto un proprio statuto. Ma allora perché mai dare un calcio alla fortuna?
paoloarmaroli@tin.it

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