Protesi al ginocchio con tecniche meno traumatiche

Felicita Donalisio

Trattare l'artrosi del ginocchio in maniera ottimale con la minore aggressività possibile: questo obiettivo è oggi alla portata delle migliori strutture ortopediche, in grado di gestire un ventaglio di procedure terapeutiche sempre più ampio e sofisticato. Spiega il dottor Domenico Siro Brocchetta, primario del reparto di Chirurgia protesica del ginocchio e dell’anca del Policlinico di Monza: «La qualità di un moderno reparto di chirurgia del ginocchio si misura dalla sua capacità di personalizzare il trattamento, cioè di affrontare nel modo più efficace ogni stadio della malattia. Il percorso dell'artrosi è graduale: spesso, a segnarne l'avvio è una semplice condropatia, ovvero un'alterazione della cartilagine, che è il tessuto che riveste le ossa dell'articolazione del ginocchio, permettendone i movimenti. Nelle fasi iniziali, può trattarsi di una manifestazione di lieve entità, un rammollimento modesto che però può aggravarsi via via, fino alla formazione di buchi veri e propri. Qui deve suonare il primo campanello d'allarme perché, se queste lesioni non vengono trattate tempestivamente, si può arrivare alla scomparsa della cartilagine in zone sempre più ampie. Evitare che il processo erosivo diventi cronico è la prima preoccupazione dell'ortopedico, il quale, in questo stadio, è perfettamente in grado di porre una diagnosi precisa e precoce, che permetta di applicare la procedura terapeutica meno aggressiva tra quelle oggi disponibili». Continua il dottor Bocchetta: «Quando la lesione non supera gli 8-10 cm quadrati di superficie ci troviamo ancora al primo stadio e quindi possiamo applicare la tecnica meno invasiva. In tal caso, purché il paziente non abbia superato i 60 anni, l'intervento più conveniente è ormai considerato il trapianto autologo di cartilagine, che negli anni ha dimostrato un livello notevole di efficacia. Questa procedura non demolitiva ha per scopo il ripristino dell'integrità dell'articolazione. Nel corso di un'artroscopia, viene prelevato il tessuto cartilagineo del paziente, coltivato in laboratorio e, a distanza di 1 mese dal prelievo, reimpiantato nelle aree usurate dell'articolazione. Essendo poco invasivo, l'intervento consente al soggetto di riprendersi velocemente». Che succede quando gli esami diagnostici rivelano la presenza di lesioni più estese? «In questo caso si deve ricorrere all'impianto di una protesi, ma sempre cercando di rispettare il criterio di gradualità della terapia», precisa il dottor Brocchetta «Se siamo fortunati e la lesione riguarda non tutta l'articolazione, ma soltanto la sua parte mediale o laterale, allora possiamo ricorrere alla soluzione relativamente meno cruenta, cioè all'impianto di una protesi monocompartimentale, detta anche miniprotesi, per le sue contenute dimensioni e per il fatto che richiede il sacrificio di piccole quantità di osso». E quando sono compromesse entrambe le aree articolari? «Se i legamenti sono sani, si possono impiantare due miniprotesi (una in posizione mediale e l'altra in posizione laterale). E, nei casi in cui uno dei due compartimenti abbia una lesione meno estesa dell'altro, si può addirittura eseguire un abbinamento tra un impianto miniprotesico e un trapianto cartilagineo. Infine, la situazione più grave, quando la diagnosi viene posta in ritardo e tutta l'articolazione risulta pesantemente compromessa.

In questi casi non ci sono alternative: occorre sostituire l'intera articolazione, impiantando una protesi totale. Ma il chirurgo vi si rassegna soltanto dopo aver accertato che non siano impiegabili procedure meno aggressive».

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