Qualcuno era comunista. Però continua a fingere di aver perso la memoria

Una storia del Pci e dei suoi eredi di piacevole lettura ma con alcune concessioni al luogo comune. E interrogativi attualissimi che restano senza risposta

Qualcuno era comunista. Però continua a fingere di aver perso la memoria

Quando c'erano i comunisti, di Mario Pendinelli e Marcello Sorgi (Marsilio, pagg. 383, euro 18), ha per sottotitolo I cento anni del Pci tra cronaca e storia e per, come dire, sottotesto, una serie di interrogativi. Per esempio, perché quello italiano fu il più grande fra i partiti comunisti occidentali? Per esempio, se e quanto fu rivoluzionario in senso totalitario, mirante cioè alla conquista da solo del potere? Paradossalmente, nel secolo che ci separa dalla sua nascita, e nel quarto di secolo abbondante trascorso dai suoi funerali, ciò che non viene preso in esame è ciò che forse ci dovrebbe più interessare, non tanto come storici o studiosi del problema, quanto come comuni cittadini interessati alla res, alla cosa, publica. Come è possibile che, tranne qualche frangia lunatica e qualche intellettuale freak, nessun politico oggi ex o post comunista parli più del come e del perché lo fu convintamente fino a ieri, uno ieri che arriva sino al 1989, quando, crollandogli il muro di Berlino sulla testa, fu giocoforza dover ammettere che, almeno come realtà storica, il comunismo non esisteva più e si era rivelato un fallimento?

Ancora adesso, una parte significativa della nomenklatura piddina o para-piddina, da Zingaretti a Bersani, passando per Cuperlo, Orfini, Fassino e Minniti proviene da lì, per tacere di chi fino all'altro ieri, da D'Alema a Veltroni, ne guidò, con alterne fortune, le sorti. È come aver assistito a una sorta di mutazione genetica, al termine della quale il mutante non ricorda più nulla del suo passato, ma si mostra inorridito se qualcuno glielo riporta alla mente, un peccato di cattivo gusto o, peggio, di cattiva politica, di pregiudizio ideologico di matrice fascista, naturalmente. Un esempio clamoroso resta quello di Walter Veltroni, allorché da post negò di essere mai stato comunista, attirandosi il sarcasmo del Manifesto: «Facevamo schifo!» titolò in prima pagina dopo quella rivelazione. Val la pena ricordare che Veltroni è lo stesso che ha sentito il povero Willy, massacrato a morte in quel di Colleferro, sussurrare «non respiro più», caso limite di immedesimazione a stelle e strisce, ovvero di «pastorale americana».

Corollario, straordinario, di questo atteggiamento di rimozione è che tutto il resto è però rimasto come prima. I meccanismi psicologici, la rissosità interna, la propaganda, il bis-pensiero, la designazione di volta in volta di un nuovo nemico assoluto, la diversità come superiorità morale... Si assiste così a un unicum: un'ideologia sconfitta e rimossa che di fatto continua a permeare la sinistra di questo Paese, anche se non si sa in nome di cosa e di chi, come quelle oche che, una volta decapitate della testa, continuano ad aggirarsi nel cortile di casa...

Pendinelli e Sorgi sono due giornalisti di lungo corso, inviati speciali, più volte direttori, e questo assicura al libro una lettura scorrevole e piena di cose interessanti. Qui e là c'è qualche concessione al luogo comune. Dire, a proposito del neutralismo giolittiano, che «l'anziano statista aveva visto giusto quando aveva inutilmente suggerito di tenersi fuori dai combattimenti» è una frase priva di senso. Dà per scontato un neutralismo senza ripercussioni, un dopoguerra in cui l'Italia gode tranquillamente del suo essere rimasta fuori, esclude un'evoluzione del conflitto a noi contraria, eccetera, eccetera... Anche la definizione di Lenin come «dittatore», ma dello stalinismo come «più di una dittatura, uno dei tragici totalitarismi del Novecento», ha un vago sentore gesuitico nel voler riformulare l'idea che in fondo sia Stalin il vero cattivo di turno, il vero vilain del comunismo... Basta leggersi Stéphan Courtois e il suo Lénine, l'inventeur du totalitarisme, per vedere quanto e come Stalin stia in Lenin, ne sia l'inveramento, non la negazione.

Infine, l'attenzione posta sull'«idea di fabbrica come sperimentazione della modernità», di matrice gramsciana, e sull'«élite operaia» come rigeneratrice dal basso del Paese, di impronta gobettiana, sembra non tener conto dell'osservazione sensata fatta all'epoca da un intellettuale come Prezzolini, la cui rivista La Voce era stata, sia per Gramsci sia per Gobetti, una lettura imprescindibile. Questi aveva allora ben spiegato che quell'élite operaia indossava la domenica la camicia bianca simbolo del decoro borghese e non la tuta da officina stirata e lavata per l'occasione, mirava ad emancipare i propri figli dal lavoro manuale, non aveva una cultura propria di riferimento, l'esatto contrario insomma di una aristocrazia fiera di sé stessa, dei suoi valori, della sua visione del mondo.

Anche sul sequestro Moro e sulla fine del compromesso storico, Pendinelli e Sorgi si affidano a un'interpretazione poco meditata. «Nella Dc la linea della fermezza contro i terroristi - scrivono - e il rifiuto di ogni trattativa hanno lasciato spazio a un rimorso tipico di un partito che ha nel suo Dna la mediazione e la ricerca di una soluzione anche quando non c'è, mentre nel Pci hanno rafforzato l'argine verso il terrorismo di sinistra, costi quel che costi». È un discorso all'apparenza sensato, non fosse che il cadavere eccellente è quello di un democristiano e insomma è facile fare gli integerrimi, con i morti, purtroppo ammazzati, degli altri...

Su Gramsci, Quando c'erano i comunisti fa delle osservazioni pertinenti, soprattutto intorno a quel concetto di egemonia, ovvero di conquista del potere dall'interno, la cosiddetta conquista della società civile, che era il frutto della sua riflessione di fronte alla bruciante sconfitta dell'ipotesi rivoluzionaria, da lui vissuta sulla propria pelle. Resta però inevaso il problema di fondo, ovvero quanto, come e perché il comunismo si definisse tale e non un socialismo più o meno riformista. Quanto, come e perché si declinasse in senso anticapitalista, ovvero dirigista e collettivista, almeno nei suoi enunciati teorici. Perché, in breve, continuasse a rifarsi a Mosca e alla sua lezione e non a Bad Godesberg e alla sua correzione socialdemocratica.

L'appendice del libro, una lunga intervista a Umberto Terracini che copre in pratica un terzo del libro, è in tal senso emblematica. Avvenuta nel 1981, quando il Pci è ancora il Pci, ha appena ammesso l'esaurirsi della «spinta propulsiva» nell'Est Europa, ma continua a definire «la Rivoluzione socialista dell'Ottobre il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca», è la lunga disamina, dall'interno, di cosa abbia voluto dire essere comunista e sentirsi ancora tale. Terracini è un uomo di valore e di carattere, è stato tra i fondatori del partito, ne è stato espulso, ha sperimentato su di sé l'ortodossia feroce di chi in carcere viene isolato dai suoi stessi compagni perché così è stato deciso da Mosca, vi è stato riammesso senza che nessuno abbia sentito il bisogno di fare ammenda né lui di chiederne conto... È un perfetto esemplare di uomo comunista per il quale la causa è superiore a qualsiasi riflessione ideologica, etica, individuale. Nelle sue risposte c'è tutta la dicotomia fra il partito e la vita vera, ovvero l'analizzare la realtà sempre e soltanto in un'ottica partitica, e ad aver torto è sempre la vita vera, mai il partito. A proposito del riformismo al tempo della scissone del '21, si esibisce in un'ardita capriola del più puro materialismo dialettico. I riformisti, dice, «affermavano che il proletariato non avrebbe mai potuto assumere il potere nel cuore del mondo capitalistico, senza essere soffocato da un blocco economico e schiacciato infine dall'azione militare». Si tratta, osserva, di «una sorta di profezia» che «per quanto disgraziatamente si sia in qualche modo realizzata», non era però «sostenuta da nessun elemento concreto. Era una falsità». Questo perché «il socialismo stava nascendo e avrebbe potuto imboccare molte strade diverse». Loro i comunisti, pensavano all'occasione storica, senza precedenti, di costruire una democrazia operaia, basata sull'internazionalismo, sulla pace. Non avevano «ricette, ma una grande speranza che nonostante tutto non è mai venuta meno».

Ragionamenti simili fanno cadere le braccia. La chiusa di quell'intervista è anch'essa sintomatica, nel suo nominalismo non di facciata, nell'intestardirsi a rivendicare per il suo partito il copyright del vero socialismo: «Si deve pur riuscire a definire in termini precisi e operativi un concetto di socialismo che non sia neppure la riproposizione del modello socialdemocratico.

La crisi stessa del mondo contemporaneo, la caduta di tante speranze, sollecitano uno sforzo, un'immaginazione diversa». Tempo dieci anni e si sarebbero ritrovati tutti liberisti, globalisti, super-capitalisti anche se questo, morendo prima, a Terracini sarebbe stato risparmiato.

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