Quando Hemingway insegnava a McCarthy

Una volta i semi della sapienza narrativa davano grandi frutti. Oggi generano cartoline

Quando Hemingway insegnava a McCarthy

C' è un pensiero, o un'idea che mi si fa incontro da qualche tempo in tante situazioni apparentemente diverse. Leggendo un romanzo. Parlando con un amico. Partecipando a un convegno. Camminando per strada. Parlo della difficoltà crescente a riconoscere in qualunque cosa il suo aspetto storico, la sua durata, la sue origini nel tempo. Il pensiero, insomma, che qualunque cosa deriva da qualcos'altro, che un'idea si sviluppa da un'altra idea, che qualcosa che si fa oggi si sviluppa da qualcosa che è stato fatto nel passato. Come se la comunità umana fosse un'entità puramente spaziale. Questo determina un decadimento del valore culturale dell'esperienza umana (e della sua narrazione) in favore di una dimensione emozionale, spiritualistica, acronica.

Quest'estate, tra i libri che ho letto, Avere e non avere di Ernest Hemingway ha avuto un posto speciale. Avere e non avere è del 1937 e appartiene a un periodo in cui il grande scrittore ha prodotto alcuni dei racconti più belli della storia della Letteratura. Il romanzo si compone di tre capitoli, due più brevi e uno più lungo, incentrati sul destino tragico di un unico personaggio, Harry Morgan (il nome è già un romanzo a sé stante), e delle sue avventure tra Cuba e Key West.

Si capisce che lo scrittore attraversa un periodo di grandi cambiamenti; il romanzo alterna pagine di straordinaria innovazione tecnica con altre nelle quali la sperimentazione sembra trovarsi (per esempio nei monologhi, che col passare delle pagine si infittiscono) ancora a metà del guado. Ne risulta un'opera di enorme vitalità, che non può non aver lasciato un segno in qualche lettore intelligente. Uno di questi lettori intelligenti è stato Cormac McCarthy, che come nessun altro ha raccolto i semi della sapienza narrativa del suo grande predecessore. Che Hemingway e McCarthy siano padre e figlio (come Manzoni e Gadda, come Gogol' e Bulgakov, come Tolstoj e Grossman) è una felice evidenza. Vedo più difficile il riferimento a Faulkner - sempre che non si voglia ridurre lo studio della letteratura a una mera questione di contenuti. In tutta l'opera di McCarthy, e soprattutto nell'ultima parte di essa, il peso di Hemingway si fa sempre più evidente. Leggete il modo in cui Avere e non avere ci presenta una scena di pesca, il modo in cui l'esca viene attaccata all'amo, il gioco delle correnti sulla superficie del mare, il passaggio notturno di qualcosa di scuro sul fondo scuro del cielo. Quando a Morgan viene amputato un braccio, la moglie chiama «pinna» il suo moncherino, e il pensiero corre a Il passeggero di McCarthy e al suo bizzarro omino pinnuto. E vi corre non per la buffa coincidenza, ma perché nell'impianto narrativo e nella tecnica descrittiva di McCarthy si avverte una profonda, serrata meditazione sulla lezione stilistica dell'illustre predecessore.

Ma per raccogliere fino in fondo un'eredità non basta la capacità di riprodurre una certa tecnica. La meditazione dell'uno come dell'altro si svolge, con rigore matematico, su coppie di concetti quali «giustizia/crimine», «fortuna/disgrazia», «dominare/subire» e sulla complessa dinamica che li governa. La coppia fondamentale, che determina in ambedue il livello ontologico della questione (e la loro ossessione profonda) è la più elementare di tutte: «vivo/morto». E, ripeto: non è questione di contenuti, ma (che è molto più importante) di stile. In tutta la Storia, solo un altro nome mi viene in mente a questo riguardo, quello di Michelangelo Buonarroti. La grandezza di Hemingway (come di Michelangelo) è stata di non fare di questa coppia un semplice «tema» (un ciò di cui) ma anche una questione strettamente artistica, una fonte di elaborazione estetica. In Hemingway vita e morte non sono semplici condizioni capaci di smuovere emotivamente il lettore, ma vere e proprie indagini mosse da interrogativi lucidi fino al cinismo, alla chirurgia: quand'è che la vita incontra la morte?, cosa accade in quel preciso istante?, come avviene questo misterioso passaggio?, il morto è davvero morto?, cosa succede a un corpo mentre muore? Come muovere le parole, la sintassi affinché lo sguardo della lingua oltrepassi i pregiudizi dell'occhio?

Non si tratta di temi scientifici, ma di sfide narrative. Lo scrittore deve entrare nel labirinto che si stende tra vita e morte e imporsi il coraggio e la pazienza di raccontarlo: il suo valore si misurerà su questa determinazione tragica. Raccontare onestamente un istante simile non è soltanto una fatica immane, ma un lavoro totalizzante con i sentimenti basilari che rappresentano quel passaggio, ossia il coraggio e la paura. La serie di opere che cominciano con Morte nel pomeriggio (1932) e seguitano con La breve vita felice di Francis Macomber, Le nevi del Chilimangiaro, La capitale del mondo (tutte del '36) e un anno dopo con Avere e non avere è un momento di speciale felicità, e non è strano che McCarthy, anche lui spinto al racconto da una necessità di conoscenza e da una stessa ossessione (fino all'orrore) per le opposizioni radicali, attinga a una fonte così ricca.

Leggendo i due scrittori accostati è possibile definire meglio il senso di una parola che li accomuna, «visionarietà». La forza pittorica di McCarthy (pensiamo ai suoi temporali, alle sue autostrade, ai suoi paesaggi dove l'udito si sostituisce alla vista, ai suoi lupi) si sviluppa grazie a una qualità visionaria che ha la sua radice non nel dispiegamento della fantasia, ma in un'osservazione del reale onesta fino allo spasimo inaugurata dal suo modello - perché se lo scrittore mediocre si occupa delle cose invisibili (sogni, emozioni, avventure, amori), il grande scrittore ci svela il mondo visibile, quello che non vediamo, quello che vedono solo i poeti e i matematici. Perché la letteratura è tempo e storia, la comunità dei lettori e degli scrittori non è un blog , un premio o un festival, ma qualcosa che vive nei decenni, nella storia ed è fatto di scuole, di maestri (sia pure involontari) e di discepoli. Tutto viene da qualcosa che viene a sua volta da qualcos'altro. Dovremmo leggere un libro risalendo ai libri che lo hanno preceduto, incontrare parole perpetuate da un'epoca all'altra, immagini generate da altre immagini sorte anni, secoli prima. Del resto, come potremmo riconoscere una vera novità senza questo respiro temporale?

Qualcuno obietterà che diversi scrittori, oggi, scelgono ambientazioni storiche per i loro romanzi.

Ma la storia non è uno scenario, non è una quinta: si può accettare e ammirare se a raccontarla sono una Aleksievic o una Stepanova (nipoti di Grossman e pronipoti di Tolstoj), ossia poeti-testimoni, altrimenti è un gioco muto che della storicità, di questa cosa che investe la lingua nella sua densità, non trattiene altro che un'immagine da cartolina.

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