Lasciatemi dire, senza alcun elemento di prova, che la morte di don Verzé è stata troppo perfetta per essere casuale. Morire alla fine dell’anno terribile che lo ha messo in croce, caricarsi sulle sue spalle ogni errore e reato commesso nel San Raffaele e morire nel giorno in cui sarebbe andata all’asta la sua opera grandiosa, lasciando in ciascuno una scia di rimorsi e sospetti, è un disegno intelligente più che uno scarabocchio del caos.
Non mi addentro nei meandri delle ipotesi omicide e suicide, istituzionali e private; mi basta dire che in altri tempi si sarebbe detto «la mano divina» o comunque un angelo premuroso.
Su di lui ripeto un motto heideggeriano: accade ai grandi di sbagliare in grande. E in ogni caso i suoi «sbagli» impallidiscono dinanzi alla grandezza della sua opera. Ricordo altri fondatori su cui furono adombrate critiche e veleni: penso al fondatore della Casa della Divina Provvidenza nel Sud, don Pasquale Uva, poi beatificato; penso a Padre Pio, poi santificato.
Ho conosciuto don Verzé alle sue spalle. Era una mattina di dicembre al Quirinale e il presidente Ciampi e l’allora ministro della Pubblica istruzione Letizia Moratti premiarono alcuni benemeriti con le medaglie d’oro della cultura. Tra loro c’era mio padre novantenne.
Davanti a noi era seduto don Verzé, che poi conobbi. Ero dietro di lui e scherzando poi dissi che non avevo seguito la cerimonia perché la sua aureola mi impediva di vedere.Quell’aureola è stata spezzata, un po’ da lui, molto dai suoi nemici. Ma ricresce.
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