Quando libertà rima con povertà il popolo si ribella

La globalizzazione ha colpito l'Occidente che riscopre identità e nazionalismo

Quando libertà rima con povertà il popolo si ribella

Solo con la liquidazione di nazismo e fascismo, son tornate in auge economia di mercato e democrazia liberale, un binomio indissolubile divenuto presto la cifra identitaria stessa dell'Occidente nella sua lotta pluridecennale contro il comunismo. Il crollo del muro di Berlino è sembrato chiudere il cerchio celebrando il definitivo trionfo planetario dell'abbinata ordine capitalistico-democrazia liberale. Abbiamo assistito invece all'apoteosi del primo e alla crisi della seconda. Nelle neodemocrazie dell'Est europeo s'è fatta palese la relativa efficacia «delle forme istituzionali della democrazia-regime rispetto all'esigenza di riforme economiche e sociali. La libertà non è stata accompagnata né da prosperità né da uguaglianza». La disillusione delle nuove democrazie ha finito per sommarsi con il disincanto democratico che si è parallelamente diffuso nelle «vecchie democrazie radicate in società ricche». Ha cominciato allora a prendere corpo il fantasma di un ritorno di fiamma, alla stregua degli anni Trenta, di nuove suggestioni autoritarie.

Nulla, però, si ripropone negli stessi termini. Una globalizzazione prorompente ha travolto ogni argine al dispiegamento del capitalismo creando grandi opportunità per i Paesi in via di sviluppo e problemi per quelli industrializzati. Si calcola che la povertà estrema sia scesa a meno del 10 per cento della popolazione mondiale. Era di circa il 37 per cento fino al 1990. Una tale accelerazione della crescita che ha fatto parlare del più grande arricchimento nella storia dell'umanità. In compenso, le società occidentali hanno sofferto per il fenomeno delle delocalizzazioni, per l'impoverimento di larghe fasce della popolazione, soprattutto della classe media, per la perdita di posti di lavoro nei settori produttivi più esposti alla concorrenza. Dal punto di vista politico si è assistito a un pesante trasferimento del potere dai luoghi deputati della politica a sedi e istituzioni che sfuggono alla politica, facendo saltare «la congruenza tra spazio politico e spazio economico». A farne le spese sono state le democrazie occidentali. Sono emersi i limiti dello Stato nazionale, che sappiamo esser stato lo spazio congeniale all'affermazione della democrazia di massa: una democrazia agìta dai partiti che della democrazia sono stati gli attori protagonisti e i supporti vitali. Si è consumata al contempo quella che è stata chiamata «la ribellione delle élite», il venir meno della loro disponibilità a «vivere al servizio di ideali molto impegnativi», «ad assumersi la responsabilità di quegli standard elevati senza i quali la civiltà è impossibile».

Sulle democrazie ha finito per riversarsi un carico di sfide che ha attivato al loro interno nuove fratture politiche. Sono stati messi fuori gioco non solo i partiti tradizionali, ma la stessa democrazia dei partiti, per eccellenza democrazia delegata. L'incaglio della crescita economica e del progresso sociale che dal dopoguerra in poi sono stati i veri supporti alla legittimazione di massa della democrazia politica ne ha eroso le basi. Così come sono diverse rispetto al primo dopoguerra le dinamiche economiche attivatesi in questo passaggio di millennio (libero mercato mondiale vs protezionismo nazionale), parimenti diverse sono le ricadute politiche prodottesi (deriva illiberale delle democrazie vs trionfo dei regimi autoritari e totalitari). Il progresso ha prodotto sempre meno vincitori e sempre più perdenti. Alla coppia oppositiva destra/sinistra si è venuta sostituendo quella tra i vertici politici, le élite, l'establishment nazionale e internazionale e i cittadini comuni, gli uomini qualunque, l'indistinto popolo. Quest'ultimo protesta di esser stato defraudato del suo potere e rivendica la sovranità sottratta, l'identità nazionale minacciata. Esattamente il contrario di quello che anima l'establishment, ancorato com'è alla filosofia dei diritti umani e al pensiero cosmopolita che postula l'esistenza di un'unica comunità mondiale, incompatibile con il populismo arrembante. Il mondo della politica resta sempre binario, ma sostituisce l'opposizione destra/sinistra con quella di popolo e oligarchie, il primo portatore nella visione populista di redenzione, le seconde di apocalissi.

Il risultato è che, a distanza di tre secoli dai suoi esordi, viene smentita la retorica delle magnifiche sorti e progressive della democrazia. Se è vero che nell'arco di un paio di secoli la quota della popolazione che vive in Paesi democratici è passata dall'1 per 14 cento (dato riferito al 1816) al 56 per cento (percentuale del 2015), è altrettanto indubbio che la democrazia annaspa oggi non solo nella sua terra natale, l'Europa, ma a tutte le latitudini. È ormai da tre lustri che la democrazia è in ritirata in tutto il mondo. Stando alle rilevazioni del 2017, solamente il 5 per cento della popolazione mondiale vive in Paesi pienamente democratici, mentre più del 30 per cento è soggetta a dittature. Il resto si ritrova nel limbo o di democrazie imperfette o di regimi ibridi. Ma neppure le quattordici democrazie piene (sulle diciannove totali) di cui il Vecchio Continente può vantarsi di essere titolare sono in buona salute, in balia come si ritrovano di un'opinione pubblica disamorata, quando non apertamente ostile all'ordinamento democratico vigente, in bilico ormai tra forme plebiscitarie ed esiti apertamente illiberali.

Il dato più preoccupante è che la tendenza consolidatasi negli ultimi tempi è di un generale declino della democrazia. Anche se il processo è difforme nelle varie parti del mondo, si conferma in atto sia nei Paesi con democrazie consolidate, come gli Usa, che in quelli con regimi già autoritari. È vero che quest'ultimi sono progrediti sulla via della democrazia, ma è altrettanto indubbio che quelli affacciatisi alla democrazia dopo la fine della guerra fredda sono regrediti, a causa «di una corruzione dilagante, di forze populiste antiliberali e di una caduta dello stato di diritto»; il che ha portato al rifiuto di alcuni principi basilari come la separazione dei poteri e il rispetto dei diritti delle minoranze. Il trend peraltro non è stato uniforme. Negli ultimi quindici anni si è realizzata un'inversione di tendenza. Mentre nel primo quindicennio successivo alla caduta del muro di Berlino (1989-2005) la percentuale dei Paesi Not Free è diminuita di 14 punti (dal 37 al 23 per cento), successivamente (dal 2005 al 2018) è risalita al 26 per cento. Nello stesso periodo inoltre i Paesi Free, cresciuti dal 36 al 46 per cento nella prima fase, sono retrocessi al 44 per cento. Il completamento del ciclo regressivo si sarebbe compiuto nel 2017. Gli stessi regimi che ancor oggi noi insistiamo a chiamare democratici, in effetti non lo sarebbero più.

«Il ruolo del cittadino ne è convinto Massimo Salvadori è ridotto ovunque a quello di consumatore della politica». I sistemi definiti liberaldemocratici sarebbero più propriamente da qualificare come dei «governi a legittimazione popolare passiva» o addirittura come democrazie illiberali, senza diritti, che hanno cioè perso il loro storico legame col liberalismo. Il sentiment diffuso è divenuto, non più di rincorsa, ma di rivalsa nei confronti dei vertici della scala sociale. Di questo nuovo orientamento dell'opinione pubblica si è proposto come interprete il populismo, una sorta di contro-rivoluzione dell'ordine liberale, dei valori che questo propugna, delle modalità con cui esercita il potere, delle sue conquiste, delle sue eredità, per finire con l'ethos culturale con cui ha preteso di imporre la sua egemonia al globo intero. Differenze locali a parte, che abbia un'impronta neofascista o neocomunista, che coltivi progetti sovranisti o secessionisti, che nutra un orientamento moderato o estremista, condivide sempre una contrarietà di principio all'establishment. All'inizio ha ostacolato una pronta presa di coscienza dei termini della sfida lanciata dal populismo, una presunzione dura a morire che ha reso i suoi avversari ostaggi di una sorta di complesso di superiorità.

Non si è tenuto conto che è cambiato il terreno sul quale si svolge il confronto. In gioco sono stati messi non più solo i contenuti dell'azione di governo, ma la stessa forma delegata della democrazia.

Una sfida assai insidiosa e ostica per i fautori della democrazia rappresentativa, in seria difficoltà a rimontare l'handicap di partenza incorporato dalla loro causa, riconducibile alla mai perfetta conciliabilità tra il principio della sovranità popolare e l'esercizio della delega da parte degli eletti.

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