«La ragazza stava guardando verso la fila lontana di colline. Sotto il sole erano bianche, e i campi erano bruni e riarsi.
Sembrano elefanti bianchi disse.
Non ne ho mai visto uno disse l'uomo bevendo la sua birra.
No, non potresti averlo fatto.
Potrei sì disse l'uomo. Il semplice fatto che tu lo dica non prova nulla.
La ragazza guardò la tenda di bambù».
Il brano è preso dal celebre racconto Colline come elefanti bianchi di Ernest Hemingway, di cui tra il 15 e il 18 febbraio sarà presentata un'audace versione teatrale presso la Sala degli Angeli, in via Colletta 23, a Milano, con Matteo Bonanni e Federica D'Angelo, drammaturgia di Maddalena Mazzocut-Mis e regia di Paolo Bignamini.
Colline come elefanti bianchi è ritenuto da molti il più bel racconto breve della letteratura americana. Scritto quasi un secolo fa (1927), anticipa di una ventina d'anni una certa commedia impegnata e corrosiva che grandi attori porteranno sul grande schermo. Il brano qui sopra si apre e si chiude con il verbo «guardare». Seduta a un tavolino di una stazione ferroviaria, una ragazza guarda il paesaggio. Le lontane colline fermano la sua visuale, che non può andare oltre. Un senso di prigionia la opprime. Cerca di trovare nella sua pena qualcosa di divertente, e di divertire l'uomo che le sta accanto, e che forse non la ama più. «Sembrano elefanti bianchi» dice. Ma l'uomo non coglie le sue parole, le deforma riducendole al loro senso letterale: «Non ne ho mai visto uno», come se lei stesse parlando davvero di elefanti bianchi. La replica della ragazza sottolinea amorevolmente l'incongruità della sua risposta; stavolta lui capisce (che lei gli sta dando dello sciocco) e si irrita. La nuova risposta dell'uomo suona assurda: «Il semplice fatto che tu lo dica non prova nulla». La mette sulla logica, ha bisogno di mostrarsi più intelligente di lei, ma ormai lei ha capito. Il suo sguardo si ritira dal povero orizzonte e si ferma su una vicina tenda di bambù. In questo passaggio c'è la parabola della sua amara vicenda. Il racconto è brevissimo, si legge in dieci minuti. Lo scrittore coglie la conversazione tra i due quando è già iniziata, e la abbandona mentre non è ancora finita. Il dialogo è semplice, piatto in apparenza, le parole non dicono mai quello che dicono, è tutto un parlare d'altro, e così anche la frase più semplice rivela - ma come da dentro una prigione - tutto quel groviglio di passione e di meschinità, di spavalderia mista a sotterfugio, che è, nella desolata visione hemingwayana, la nostra umana natura. Le colline osservate e insieme evocate in forma fantastica dalla ragazza sono l'opposto della siepe leopardiana, quasi l'amara risposta a un moto d'illusione. Leopardi immagina, dietro quella siepe (che non è mai esistita), uno spazio infinito. Anche solo per un istante, la finitezza e la stupidità del mondo smettono di essere una prigione, il pensiero può oltrepassare tutto questo, magari non sempre, ma lo può fare. Nel racconto di Hemingway questo non accade. Il desiderio di oltrepassare l'orizzonte esiste, flebile, lo dimostra la timida osservazione della ragazza: ma poi torna indietro, soffocato non dalla macchina quotidiana, non dalla routine, ma da un oscuro bisogno di illuderci, di sognare, che sembra l'eco della promessa menzognera del serpente (sarete come Dio) e ci fa tirare avanti la commedia, sopportando ciò che è insopportabile. Alla ragazza, colpevole solo di essere rimasta incinta per sbaglio, non resta che farsi forza, alzare anche lei il suo muro.
«La ragazza era seduta al tavolo e gli sorrise.
Ti senti meglio? domandò lui.
Mi sento bene disse lei. Non ho niente. Mi sento bene».
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