Siamo tutti abituati allidea di un americano a Parigi. Ma quando è un parigino (per quanto nato a Liegi) ad andare negli Usa, le cose cambiano. Georges Simenon non si fece mancare niente, nella vita, neppure unincursione nel western, concepita durante il suo soggiorno in Arizona nel 1947. Non proprio un soggiorno volontario: il suo viaggio fu una fuga dalle accuse di collaborazionismo mossegli per aver intrattenuto contatti con alcuni produttori cinematografici tedeschi in tempo di guerra, accuse che gli costarono interrogatori, dossier e ostracismi prima di rivelarsi infondate.
Il ranch della giumenta perduta (Adelphi, pagg. 200, euro 18, traduzione di A. Berello), pubblicato ora in Italia per la prima volta, è un vero western, ambientato fra XIX e XX secolo in un territorio classico della frontiera americana: deserti e monti solcati da piste appena visibili, biscazzieri e amori tempestosi. Nonostante tutto, resta un romanzo à la Simenon, con unatmosfera fortemente elegiaca. Giocata sui continui rimandi tra il prima e il dopo, la vicenda ha per protagonista Curly John, anziano ranchero che acquista allasta un baule contenente uno strano documento, la lettera che avrebbe dovuto sancirne il fallito omicidio tanti anni prima. Ci sono forti indizi sullex-amico fraterno con il quale tanti anni prima si era trasferito in Arizona e aveva cercato e trovato fortuna. La scrittura è puro Simenon, lambientazione è puro West, malgrado il periodo doro della Frontiera sia ormai al crepuscolo. Il passaggio dal cavallo allautomobile, ben evidenziato dal romanzo, lo testimonia. E dire che Simenon non si adattò mai del tutto allo stile di vita americano.
Lo scrittore belga non è lunico giallista a essersi cimentato nel western. Elmore Leonard, padre del thriller americano, ben prima di dare alle stampe classici come Tishomingo Blues e Jackie Brown, ha impresso a fuoco il proprio nome nella storia del western con racconti come Quel treno per Yuma. «Scrivevo western quando il mercato chiedeva western e, quando ha iniziato a chiedere polizieschi, mi sono messo a scrivere polizieschi», ha detto.
Da buon texano, Joe R. Lansdale non poteva esimersi dal provarci. «Mi considero un autore che avrebbe voluto scrivere libri di fantascienza e di horror, ma che pure amava i western. Sono un autore strano, insomma, che per caso si è imbattuto in western e noir». Provate a sfogliare Il carro magico e vi troverete davanti il manifesto dello stile-Lansdale inciso su una bandiera a stelle e strisce.
Diverso è il discorso per James Lee Burke. Noto per la serie del detective Dave Robicheaux, adora il western. Il suo Two for Texas è un eccezionale romanzo storico, ambientato a Fort Alamo alla vigilia del celebre assedio.
In un certo senso, western sono pure i libri della cosiddetta trilogia del confine di Cormac McCarthy, soprattutto quel Cavalli selvaggi che già dal titolo profuma di West. Ci sono tutti gli elementi del genere: sentimenti e personaggi contrastanti, grandi spazi, cavalli e violenza, il tutto filtrato dallumore crepuscolare dellautore.
Vincitore del Pulitzer al pari di McCarthy è un altro straordinario autore americano da noi poco noto: Larry McMurtry. Ha alle spalle una produzione sterminata, ma il romanzo che lo consegnerà alla storia è Un volo di colombe (fuori catalogo da molto tempo), splendida saga di due amici in un West in cui lamore conta meno dellamicizia e la natura è implacabile.
John Harvey, inglese, è noto soprattutto per le bellissime e disperate serie poliziesche degli ispettori Resnick ed Elder. «Ho iniziato a scrivere western perché tiravano molto, sulla scorta del successo dello spaghetti western. Ma il genere lo conoscevo bene, essendo stato trascinato da mio padre al cinema ogni volta che veniva proiettato un western. Film come Fiume Rosso di Howard Hawks e Missouri di Arthur Penn, ma anche John Ford e Sergio Leone, mi hanno influenzato profondamente».
Robert B. Parker, giallista americano, è decisamente più lieve.
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