Quando gli stranieri erano considerati nemici

Quando gli stranieri erano considerati nemici

È forse una delle sculture più suggestive dell’antichità classica. Il Galata morente, copia romana da originale ellenistico oggi ai Musei Capitolini di Roma, raffigura un guerriero celtico che, ferito a morte, si accascia a terra appoggiandosi allo scudo. L’ignoto artista ha saputo infondere nella statua un pathos profondo, esprimendo una virile compassione verso il nemico vinto, lo straniero odiato e temuto ma pur sempre un uomo, degno di rispetto e di pietà. Viene alla mente, per contrasto, Se questo è un uomo, il libro autobiografico di Primo Levi che al contrario testimonia la disumanizzazione del «nemico» (in questo caso il deportato) privato di ogni dignità, ridotto a livello animale. Se l’antichità ha saputo esprimere, pur nella durezza dei tempi, il rispetto per il nemico vinto, il Novecento, il tremendo «secolo breve» ha completamente dimenticato la lezione.
Eppure anche i testi più arcaici, appartenenti a epoche in cui lo scontro tribale, la conquista del territorio, la difesa dei confini erano la brutale legge dell’esistenza e della sopravvivenza, contemplano la tutela dell’«altro da sé»: «Non lederai il diritto dello straniero - è scritto nel Deuteronomio -... ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto...».

In epoche in cui il turismo non era ancora stato inventato, chi si avventurava fuori dei propri confini sapeva di dover affrontare diffidenza e ostilità. Chi aveva un diverso colore della pelle, parlava una lingua incomprensibile, aveva costumi sconosciuti, mangiava cibi ignoti, era visto con sospetto, con paura. Ma quando il viaggio, nell’Europa romantica e post romantica, si è trasformato da necessità economica in esperienza letteraria, il concetto di straniero si è rivestito dei panni fascinosi dell’esotismo. È l’inquietudine che spinge Rimbaud e Gauguin verso Paesi lontani e soprattutto verso uomini e donne diversi. Che alla fine dell’Ottocento convince la giovane Isabelle Eberhardt ad abbandonare l’Europa per vivere nell’Africa del Nord dove morirà nel 1904 (Sette anni nella vita di una donna).

Ma forse la stessa scrittrice (che si era anche fatta musulmana) avrebbe reagito diversamente se quegli uomini e quelle

donne la cui diversità l’affascinava fossero arrivati allora in Europa con i numeri dell’immigrazione di massa e con il volto della povertà. Per andare fra gli stranieri ci vuole coraggio, per accoglierli ancora di più.

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