Quando Vollmann volò a Kabul per capire il mondo

Afghanistan Picture Show: già nel titolo di questo romanzo autobiografico pubblicato negli Stati Uniti nel 1992 lo scrittore americano William T. Vollmann aveva intuito l'essenza dell'oggi.

Quando Vollmann volò a Kabul per capire il mondo

Afghanistan Picture Show: già nel titolo di questo romanzo autobiografico pubblicato negli Stati Uniti nel 1992 e in Italia prima da Alet e in una nuova edizione recentemente da Minimum Fax, lo scrittore americano William T. Vollmann aveva intuito l'essenza dell'oggi. Quelle che per lui - allora giovanissimo autore convinto a lavorare in una piccola società informatica pur di scrivere un reportage narrativo dal fronte di Afghanistan e Pakistan - dovevano essere diapositive di un'umanità in perenne lotta contro la propria storia, contro i colonizzatori (al tempo erano i russi), lette oggi diventano una attualissima testimonianza in presa diretta di come la popolazione afghana su tutto abbia sempre vissuto la «frammentazione dell'esistenza».

Un Paese dilaniato non tanto dalle lotte interne, quanto da una modernità che per conquistare le coscienze non ha bisogno di esportare democrazia. Vollmann racconta, nella sua prosa poetica ma supportata da decine di fonti, come gli Stati Uniti abbiano da decenni influito sulla costruzione della nazione afghana: persino l'aeroporto che abbiamo visto decine di volte in questi giorni è stato realizzato dagli americani. Vollmann non pretende di svelarci chissà quali verità, è un aspirante scrittore fresco di università, ma la sua visione poetica è nutrita da un realismo quasi fanciullesco: la capacità, e qui sta la differenza rispetto ad altri libri, di raccontarci l'Afghanistan con lo sguardo dell'innocenza e al contempo con tutti i valori della cultura americana nella quale è cresciuto.

La sua volontà di partire per quei luoghi è ben espressa in una frase: «Quando ero piccolo, la mia sorellina era annegata perché io non avevo fatto attenzione. È lì che ho compreso che il compito di ognuno di noi è fare il possibile per capire il risentimento degli altri e, nella misura in cui possiamo farlo legittimamente e con amore, aiutarli a essere soddisfatti. Questo definisce non solo i nostri obblighi in quanto esseri umani dignitosi, ma anche il nostro interesse in quanto possibili bersagli dei terroristi». Incredibilmente Vollmann ci spiega la sua umanità e, allo stesso tempo, intuisce come quei territori diventeranno luoghi dove cresceranno futuri nemici: non a caso usa la parola «terroristi» e non «combattenti». Non a caso in tutto il libro è sempre sottolineato come i giovani crescano con i precetti del Corano a fianco della pubblicità della Sprite: e come questa dicotomia lentamente vada a erodere convinzioni millenarie. Come un nemico esterno, invisibile perché commerciale ma con un valore simbolico di rara potenza. Una Sprite non è una Sprite di fianco ad una preghiera.

Vollmann ci racconta così, con la delicatezza di un poeta ma anche con la razionalità del grande scrittore che sarebbe diventato, come la globalizzazione ci avrebbe portato ai

giorni nostri. Per Vollmann non ci sono colpevoli, se non noi stessi che lasciamo accadere gli eventi, anche i più minimi, senza neanche guardarli. Sdraiati sul divano, magari con una lattina di Sprite aperta sul comodino.

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