Quei morti discriminati per sesso

Turi Vasile

Alcune notti fa un giovane viene torturato e ucciso in un parco semiabbandonato di Roma. Le cronache lo descrivono come creatura buona, generosa, pia. Una folla commossa partecipa in chiesa al suo funerale; noi, sia pure per procura, siamo lì a esprimere tutta la nostra solidarietà nel dolore. Ma non basta, due giorni dopo si accendono in suo onore centinaia di fiaccole in piazza del Campidoglio: personalità note di intellettuali, di gente dello spettacolo, della politica e persone sconosciute - espressione comunque di un campionario della civiltà civile - sono radunate ai piedi della statua equestre dell’imperatore filosofo Marco Aurelio. Perché? La spiegazione la offre uno striscione portato in corteo: «Ucciso perché gay». In verità almeno fino a questo momento l’omicida non è stato smascherato e con lui il movente dell’ignobile gesto. È presente il martire, assente il carnefice.
Ma non basta: il sindaco di Roma si reca personalmente a casa degli inconsolabili genitori per presentare le sue sentite condoglianze e noi siamo idealmente con lui, sappiamo tra l’altro che cosa significhi perdere un figlio nel pieno della sua giovinezza.
Ma non basta: il primo cittadino della capitale promette premi e manifestazioni «per tramandare il ricordo intenso di un ragazzo sensibile, della sua ricerca interiore e della sua curiosità intellettuale». Gli fa eco la proposta di intitolare il parco, teatro dell’assassinio, alla sventurata vittima e di organizzare una cerimonia di commemorazione per il prossimo 11 settembre non si capisce se in coincidenza con il crollo delle Torri Gemelle a New York.
Manca solo che una delegazione della eletta civiltà civile si rechi (forse non lo fa perché laica) sotto la finestra del Papa per chiedere la immediata beatificazione del ragazzo timorato di Dio.
Anche senza volerlo, il nostro pensiero corre a tanti giovani e ai non giovani uccisi in parchi semiabbandonati o altrove per i motivi più svariati, talvolta per il solo fatto di esistere. Forse una mano pietosa deporrà un fiore sul luogo del delitto; forse i genitori si raccoglieranno davanti alla cella dell’obitorio più fredda della stessa morte dove giace il figlio, più solo della solitudine. Per lui non verrà il sindaco della città, magari con la fascia tricolore a tracolla, a promettere di dedicare al defunto non una piazza, non una strada, non un parco ma nemmeno un vicoletto cieco. La grande stampa, evoluta e à la page, prodiga di dettagli e di titoli cubitali in certi casi non citerà nemmeno il nome dell’assassinato o gli dedicherà poche righe in una frettolosa cronaca.
Perché? Perché egli non ha avuto il privilegio di essere o di dirsi gay. Non importa. Per i suoi genitori, straziati dal dolore, egli è un figlio e basta, «nu piezzo ’e core» come direbbe Filomena Marturano. È un giovane bruciato verde in cui è stata troncata la speranza, virtù infusa in ogni creatura umana.

Forse gli stessi genitori della vittima nel parco semiabbandonato di Roma, distratti da una così ostentata invadenza, si saranno in segreto rifugiati nel silenzio che è il vero rispetto della morte e nei ricordi del figlio perduto, dei suoi primi passi, della sua innocenza, dei suoi capricci, delle sue malinconie di adolescente e delle sue scelte di vita e lo penseranno lì, dove gli angeli non hanno sesso.

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