Ora, è vero quel che dice Thibaudet, maestro di Starobinski. La critica di libri sui quotidiani serve a «dare essere al giorno che passa», a far conversazione, a tenere accesa la fiammella della sensibilità letteraria in mezzo alle tenebre incombenti, mica a rintracciar capolavori («la scelta si farà da sé»). Tra l’altro, le stroncature sono inutili: «non c’è bisogno di aiutare gli uomini a morire». La «critica del giorno», piuttosto, dovrebbe aiutare i libri a nascere, a manifestarsi, e dovrebbe farlo intrecciandoli con la materia viva ed effimera del presente.
Molto saggio, Thibaudet. Quello da lui suggerito potrebbe essere il modo ideale per leggere La ballerina dello zar di Adrienne Sharp (Neri Pozza, pagg. 352, euro 17), romanzo ambientato nella Russia degli ultimi Romanov. Un’epoca che, senza forzature, potrebbe avere ben più di una somiglianza – nelle dinamiche del potere, negli intrighi di corte, nella frivolezza lussuosa delle classi dirigenti – con quella attuale.
Dunque, c’erano una volta... uno zar e una ballerina. Il primo è Nikolaj Aleksandrovic Romanov, più conosciuto, dal 1896, come Nicola II, ovvero l’ultimo zar di tutte le Russie (Henry Troyat gli dedicherà una delle sue più belle biografie). Il nome della seconda, realmente esistita, è Mathilde Kschessinska, nata a San Pietroburgo nel 1872 e morta quasi centenaria a Parigi nel 1971. Adrienne Sharp ci racconta la sua storia con mestiere, fantasia e molta, forse troppa, sensualità.
Fin dalla prime pagine vediamo Mathilde ben inserita nella tradizione di famiglia: le sue scarpette volano con successo sulle tavole del palcoscenico del teatro Mariinskij, dopo ascetici esercizi (proibito guardare negli occhi i maschi durante il minuetto o la quadriglia) e dopo che la chaperon le ha imbellettato di rosso le gote con batuffoli di cotone, a lei e alle sue compagne. Ah, il mondo del balletto russo. Solo che, come nel sottobosco della tivù odierna, «gli aristocratici sedevano nei palchi e nelle prime file - racconta Mathilde - da dove puntavano occhialetti e binocoli verso di noi. Nelle salette fumatori, durante gli intervalli, discutevano dei nostri pregi. Era un’attrazione reciproca. Noi avevamo bisogno di protettori per fare carriera e per integrare i nostri miseri stipendi con cene, regali, ghirlande e mazzi di fiori».
Il passo è breve. L’oramai diciassettenne Mathilde tenta di «sedurre tutti gli uomini che avessero un titolo - un giorno si sarebbero potuti rivelare utili - compreso il granduca Vladimir, ministro dei Teatri imperiali e appassionato d’arte. Un uomo vecchio ma prezioso - non credete? -, vista la sua posizione». A un certo punto, le arriva a tiro persino il futuro Nicola II: «Un’ora dopo che mi aveva portata a letto, nel 1893, avevo fatto chiamare mia sorella dal centralino per esultare con lei al telefono. I dettagli di quella notte mi erano volati letteralmente fuori dalla bocca». Oggi, telefonerebbe a Lele Mora.
Mathilde rimane incinta. Siamo nel 1901. Prima che faccia in tempo a dirlo «a Niki», però - in una scena un po’ comica, tra uno spuntino a base di caviale e un bagno caldo - viene a sapere che la moglie di lui, Alessandra d’Assia e del Reno, è a sua volta incinta di un erede maschio, almeno stando agli indovini di corte (tra i quali c’era, ricordiamo, Rasputin, come oggi ci sono le riviste di gossip). E così Mathilde dovrà ripiegare su altre liaison, che assicureranno comunque a lei e al figlio una solida presenza a corte, tra tutti quei foyer di marmo, aquile bicipiti e interminabili corridoi imperiali.
Poi... poi arrivano i comunisti. Sono le ultime cinquanta pagine del romanzo. Nicola II viene giustiziato dal soviet di Ekaterinburg insieme a tutta la famiglia Romanov, donne comprese: «i bustini così carichi di gioielli che i proiettili non riuscivano a perforarli». Mathilde prende la via dell’esilio. Per nove anni vive in grande stile in Costa Azzurra, sfruttando i proventi ottenuti dalla vendita di magnifici rubini, poi, quasi sul lastrico, trasferitasi a Parigi, apre una scuola di ballo. Assume come pianista la moglie di un vecchio generale dello zar e come contabile e spazzapavimenti (ma elegantissimo) un granduca in esilio. Quasi un film di Michalkov.
Questa parte del romanzo è struggente e arriva in fretta, con precisione, fin quasi agli anni Settanta, anche se non regge il paragone con alcuni mémoire dell’emigrazione russa, per esempio di Nabokov o Belyj. Tuttavia, ci pare stranamente più simile al presente la parte ottocentesca.
Per fortuna da noi non c’è nessun Lenin all’orizzonte, e questo è già qualcosa a cui brindare. Alla cassa, pagando la vostra copia di questo spassoso e pruriginoso romanzo, non dimenticate di chiedere alla commessa della libreria: «batjuska, anche una vodka, per favore!».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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