Il Mondiale della democrazia ha scelto la monarchia. Spagna-Olanda: re, regine, palazzi e cortigiani. Una corona per la vita e una per il pallone. La Reina Sofia fa imbarazzare i giocatori spagnoli quando entra nello spogliatoio di Durban e loro sono ancora in mutande. Un sorriso per i fotografi: il difensore centrale Piqué sembra un bambino al quale è appena caduto l’asciugamano sotto il quale si sta cambiando il costume da bagno. Lei, la regina, non si scompone: questa è la sua patria che ha vinto, che per la prima volta arriva alla finale di una coppa del mondo di calcio. Imbarazzo? Per una cosa così non c’è disagio neanche se di fronte c’è un ragazzo in mutande. Un basco, poi. Cioè uno che non riconosce neanche la corona come potere e come simbolo. La regina applaude e applaude anche Piqué, che alla fine di questo Mondiale potrà rinnegare monarchia e Castiglia, ma adesso non ce la fa. Perché il pallone ha il potere di posticipare anche contestazioni o rivendicazioni politico-sociali. La Spagna oggi è una sola, anche se non lo è mai stata.
La democrazia del pallone che ha scelto l’Africa per raccontare al mondo il suo spirito repubblicano e collegiale si trova in finale la tradizione reale. Così l’Olanda trova in tribuna il principe ereditario Willem Alexander con la principessa Maxima Zorreguieta: sciarpa arancione per entrambi e per lei anche un sottogiacca dello stesso colore. L’orgoglio di appartenenza: i reali si sentono parte di una nazione grazie ai calciatori, la gente che guarda la tv, invece, s’identifica nei principi in tribuna. Signori e sudditi, nobili e popolino, tutti insieme nel nome del pallone e a questo punto anche dell’emblema di un casato. Borboni e Orange sono l’Europa del passato che torna nel futuro. Il pallone è un mezzo per la restaurazione simbolica. Perché non ci sarà la fine delle costituzioni democratiche, ma c’è un trionfo di diademi reali e immaginari, di stemmi nobiliari. Re, regine, palazzi e cortigiani, di nuovo. Le monarchie resistono: diverse da com’erano, moderne eppure fuorimoda. Ci sono, a scandire il tempo con ritmi diversi da quelli che il mondo ha stabilito per se stesso. Sembrano superate, forse lo sono, poi arriva una competizione globale come questa e le riscopriamo. Due in finale sono l’irripetibile che si concretizza. È uno schiaffo alla retorica di questo Mondiale che avrebbe dovuto essere il simbolo della libertà illiberale: della finta possibilità di realizzare i propri sogni. L’Africa sdoganata dal pallone, sapendo che alla cerimonia di chiusura del Mondiale il Continente Nero sarà di nuovo preda dei satrapi eletti, di presidenti della Repubblica che sono più despoti dei sovrani europei del Medioevo.
Il pallone s’è liberato del vestito che gli avevano cucito. Ha scelto Spagna e Olanda. Monarchia e tradizione calcistica. L’evento spacciato per il trionfo dello sport multietnico porta in fondo due Paesi che hanno scelto di essere fortemente identitari. L’Olanda di qualche anno fa era un misto di facce diverse e di radici opposte: non era il colore la differenza, ma la testa. Negli anni Novanta c’era talento, c’erano bianchi e neri, c’erano ex colonialisti ed ex colonizzati: due fazioni, due sistemi, due modi di pensare. Non c’era anima. Oggi la Nazionale pesca ragazzi omogenei di testa, più che di colore della pelle. Elia e Van Bronckhorst sono neri, ma sono identici culturalmente e calcisticamente a Sneijder o Robben, che invece sono bianchi di pelle e biondi di capelli.
La Spagna uguale. Non è la Germania fatta di turchi, brasiliani e polacchi diventati tedeschi di passaporto. Il multiculturalismo che s’è concessa è quello che divide e unisce catalani, castigliani, asturiani, andalusi, baschi. Multietnici nella stessa etnia. Come noi portiamo meridionali e settentrionali, montanari e isolani: tutti figli della loro terra, eppure tutti figli di una sola bandiera. La Spagna non è semplice come noi: ha rivalità e ostilità interne che emergono dal profondo della storia. Però è Spagna. Divisibile, modificabile, socialmente diversa al suo interno: Villa viene dalle miniere delle Asturie, Puyol dal mare della Catalogna. Uno ha fatto la gavetta per arrivare nel calcio vero, l’altro nel calcio vero è nato perché a Barcellona ti insegnano a diventare grande anche da piccolo. Diversi, certo. Però uguali. Hanno studiato sugli stessi libri, hanno visto gli stessi cartoni animati, hanno la stessa storia vista da prospettive diverse e da latitudini differenti.
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