Quel partito che non c’è ma comanda

Nel centrosinistra la discussione più appassionata è sul «partito che non c'è». Quelli esistenti, dalla Margherita ai Ds, sono sempre più ectoplasmi. Ma persino il governo Prodi ha bisogno di una guida: il premier supplisce a questa esigenza con la tattica di impaludare la politica e intrappolare l'economia in una tela di ragno di potere, perseguita fino alla spudoratezza di aggredire una Confindustria meno compiacente su questioni assolutamente interne come la proprietà del Sole 24 ore. Anche a un governo allo sbando, però, serve una direzione. Che non è data, certamente, dalle riformette annunciate. Queste ultime indicano come la sinistra sia passata dalle riforme di struttura (per trasformare il capitalismo in senso socialista) a quelle di «distrattura» che servono a imbambolare l'opinione pubblica, quelle che Romano Prodi ordina a Pierluigi Bersani nel modo in cui si è visto: inventati qualcosa per fare rumore. Il centrodestra fa bene a non opporsi a misure utili, come una migliore distribuzione di giornali o benzina, difendendo naturalmente i diritti dei ceti medi dalle angherie, ma favorendo le liberalizzazioni. Siamo però di fronte a riforme di «distrattura». La musica vera del governo è ancora dirigista. Così in campo fiscale, così nello strategico campo finanziario, così sulle pensioni e sul mercato del lavoro, così nella spesa pubblica. Con tutti i suoi limiti, il centrodestra ha suonato una musica opposta: e questo l'opinione pubblica lo comprende sempre più chiaramente. Ma chi dirige l'orchestra che suona oggi la vera musica governativa? «Il partito che c'è»: cioè la Cgil. È questa che scrive a «quattro mani» la Finanziaria, che s'inventa le operazioni d'immagine come quella sul pubblico impiego, che detta a un impacciato Cesare Damiano tempi e modi della controriforma di pensioni e mercato del lavoro. Basta leggere le cronache dell'incontro di Rifondazione con Cgil, Cisl e Uil sulle pensioni, per comprendere come sia il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani che spiega ai seguaci estremisti come controriformare la legge Maroni senza agitarsi troppo se no si svegliano i riformisti del governo (preoccupazione forse eccessiva). La Cgil in realtà non è unita, Epifani è più il portavoce della confederazione che il leader. I veri boss sono Paolo Nerozzi e Carlo Podda, punti di riferimento del pubblico impiego, che convergendo con i leader massimalisti dei pensionati cigiellini e, quando è il caso, con i capi ancora più ultrà di loro della Fiom, danno la linea alla Cgil. Quando Podda dice «credo di non avere capito bene» riferendosi a una frase del ministro della Funzione pubblica che cercava di allentare il controllo del sindacato garantito dall'accordo «modernizzante» sulla produttività dell'amministrazione pubblica, e Luigi Nicolais fa subito una scomposta marcia indietro, il leader cigiellino fa capire bene chi comanda. Anche, dunque, con una leadership in sordina la Cgil è il vero partito che c'è. Forza di governo. E di lotta: di questi tempi non c'è episodio dalla Val di Susa alle contestazioni a Tommaso Padoa-Schioppa, dalla base Usa a Vicenza alle contestazioni delle tasse messe da Sergio Cofferati, dove i dirigenti locali e nazionali della Confederazione generale del lavoro non siano in prima fila.

Su posizioni spesso schizofreniche: pro e contro l'Alta velocità, per la Finanziaria ma contro la sua applicazione a Bologna. Ma quando il programma è conservare e non cambiare, la schizofrenia è funzionale. A proposito: l'attuale Confindustria che aveva puntato molte carte su questa Cgil, dovrebbe farsi un'autocritica.

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