Quell’autodafé ha proprio il segno di Peter Brook

Maurice Benichou allo Studio interpreta «Il grande Inquisitore» tratto dai Fratelli Karamazov: una grande pagina di Dostoievskij

Patrizia Rappazzo

«“Dov’è Cristo?” Nessuno può capire dove sia Cristo oggi. Ma porsi questa domanda è una cosa salutare per tutti. Questo quesito, però, ha senso solo se proiettato all’interno della nostra dimensione più intima», dice Peter Brook, il geniale regista inglese ospite del Piccolo Teatro che ritorna a Milano con due produzioni: Il grande Inquisitore, lo spettacolo tratto da un frammento dei Fratelli Karamazov di Fjodor Dostoiesvkij, in scena, all’interno del Festival del Teatro d'Europa, da stasera al Teatro Studio (fino al 28 ottobre) e La morte di Krishna, intenso monologo tratto dal poema epico indiano Mahabharata, ripresa a gran richiesta dal cartellone della stagione 2003, ambedue interpretati da un bravissimo Maurice Benichou.
Prodotto e presentato nel 2004 al Theatre des Bouffes du Nord di cui Peter Brook, artista eclettico che spazia dal teatro al cinema e alla parola scritta, è direttore artistico, Il Grande Inquisitore, misurandosi con le origini russe del suo autore, racconta del ritorno in terra di Cristo in Spagna, a Siviglia, nel sedicesimo secolo nel periodo della Santa Inquisizione, quando ogni giorno ardevano i roghi accesi in gloria di Dio e quando “in superbi autodafé si bruciavano gli eretici”. Nella parabola di Dostoievskij, Cristo, presenza muta - incarnata sulla scena dal musicista Antonio Stalhy - è condannato per la seconda volta dal Grande Inquisitore (Maurice Benichou), un vecchio alto, disseccato, quasi novantenne, con gli occhi incavati dove ancora riluce una scintilla, per aver risvegliato nell'uomo la coscienza e il libero arbitrio...
«La riflessione su questi temi nasce - spiega Brook - dopo Il Mahabarata, quando durante il montaggio di una pièce africana - Woza Albert di Percy Mtwa - volendo discostarsi dai temi sacri del poema indiano e avvicinarsi a qualcosa di più popolare, un attore dello spettacolo, parlando dell’attualità, mi chiede: “Cosa direbbe Cristo oggi? E così Cristo è tornato in una realtà bruciata, dove tutto parla in suo nome. La domanda oggi potrebbe essere: “Perché e come può essere possibile che la religione sia connessa al terrorismo?; come mai è stato invertito il senso del messaggio e si è trasformato in un messaggio di morte e distruzione? Dostoievskij con la forza della sua scrittura drammatica ha preso un tema del passato e l’ha fatto diventare riflessione senza tempo. Oggi nessuno parla del Grande Inquisitore, è una parte della Storia che si vuole dimenticare. Ma tra gli eretici che bruciano dinanzi tutta la Chiesa, riunita nel nome di Cristo, e fare esplodere bombe, non c’è tanta differenza. In questo senso il teatro è attualità e diventa uno strumento per riflettere a partire dal passato».
Al centro della pièce i temi del potere e del perdono: due concetti chiave che nello spettacolo di Brook prendono forma e divengono parola, attraverso il corpo degli attori e dei personaggi dell’Inquisitore, metafora del potere della Chiesa, rappresentato nella morale estrema dalla Santa Inquisizione e nella figura di Cristo, simbolica rappresentazione della commistione tra divino e umano.
Cristo per la seconda volta perdona e questa azione nel testo di Dostoievskij è rappresentata dal perdono di Ivan nei confronti del fratello e risolta in un abbraccio che segna la fine del conflitto tra i due.

Nella lettura di Brook simboleggia, invece, la necessità del teatro di portare attraverso l’azione scenica l’attualità del presente. «Cristo è l’imbarazzo dell’intelligenza - conclude Brook - e sentire la sua presenza significa vivere l’esperienza che nel teatro diventa concreta attraverso l’azione scenica».

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