Quella pace inutile e che ci costa

Nel numero del 15 novembre del nostro Giornale in risposta al lettore Signor Guidi Lei ha definito grande stupidaggine la scelta che alcuni Comuni nei cartelli stradali dopo il nome del Comune abbiano adottato la definizione «denuclearizzato». Confesso che non conoscevo l’origine di tale scelta, pensavo che fosse dovuta al fatto di Cernobil, e invece. Ora io sarei a chiedere il perché della scelta di altri Comuni della definizione «Comune di Pace», perché sarei portato per esclusione a pensare che i Comuni che non l’hanno esternata siano Comuni di guerra o no? Mi aiuti a trovare un aggettivo adatto per questi Comuni.

Poi dicono degli sprechi pubblici, caro Alborghetti. Poi gli enti locali si lamentano che mancano i soldi per migliorare le strutture sanitarie, per gli asili nido, per l’assistenza agli anziani. Però i soldi per le bischerate, quelli, chissà perché, si trovano sempre. Non è tanto il cartello «Comune di pace» inalberato alle porte del centro abitato (e che in molti casi sostituisce quello di «Comune denuclearizzato», oggi non più di tendenza). Quanto il fatto che ormai quasi la metà degli 8mila 103 Comuni italiani vanta o un Assessorato alla pace o un istituto simile (e parimenti costoso). Il titolare di quello senese (che per sovrappiù si chiama Assessorato alla Pace e al Perdono, a dimostrazione che alla bischeraggine non c’è mai fine), in un anno ha effettuato una ventina di «missioni» all’estero, per una spesa di 80mila euri e passa. A Boves, in Piemonte, hanno messo in cantiere una Scuola di Pace «dove si insegna e si vive la pace». Naturalmente ciò presuppone la presenza di professori di pace, come ci sono quelli di latino e greco o di matematica. Sempre in Piemonte è operativo un Coordinamento Pace che subito ha figliato un Ufficio Intercomunale Pace, Uip, «strumento operativo e punto di riferimento» per l’insegnamento della pace. E giù soldi.
Più parsimonioso, ma non meno ridicolo, l’Assessorato alla Pace del Comune di Scanzorosciate, in quel di Bergamo, si limita ad indire «biciclettate per la pace». E qui sorge spontanea una domanda: fermo restando che pedalare fa bene alla salute, che ci azzecca la bicicletta con la pace? Per quali vie il ciclismo contribuisce, nell’unico modo possibile, ovvero scongiurando la guerra, alla pace nel mondo? La domanda vale anche per l’assessore alla pace senese, per le scuole di pace e per i movimenti pacifisti. Fino a eri, la più efficace formula per mantenere la pace è stata quella espressa da Vegezio già mille e 500 anni or sono: si vis pacem para bellum, se vuoi la pace prepara, preparati alla guerra. Da ieri, se ne è aggiunta un’altra: il disarmo. Il calabraghismo pacifista poggia dunque su due bislacche premesse: primo, che la guerra esiste perché esistono i fucili, i cannoni, i carri armati e le portaerei. Secondo, che il «dialogo» abbia il potere di appianare frizioni e contrasti che potrebbero sfociare in un conflitto. Sull’efficacia del dialogo valga per tutte l’esperienza della Conferenza di Monaco del settembre 1938: diede via libera alla Seconda guerra mondiale.

In quanto alle armi, prima del fucile c’era l’arco e prima dell’arco il sasso e prima del sasso le mani. E con le mani, la guerra. È la stampella di Erico Toti, icona della storia patria, a contraddire l’utopia e il fregnacciume pacifista: quando c’è da combattere, anche quella torna utile.

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