Senza che esista nessuna ricetta per il successo, almeno gli ingredienti necessari per costruire un romanzo storico sono chiari. Primo, la distanza temporale tra l'età in cui vive l'autore e l'età in cui si svolge la storia: non basta la distanza di una o due generazioni, che permettono a chi scrive di avere testimonianze di prima mano, l'ideale è uno iato che si misuri in secoli. Secondo, la ricostruzione ampia e oggettiva del momento storico prescelto: ricostruzione che può essere più colorata, romantica, legata al folklore, come avviene per la Scozia medievale rievocata da Walter Scott, considerato il padre del romanzo storico stesso, o più attenta, saggistica e solidamente documentata come avviene per la Lombardia del Seicento messa in scena dal Manzoni, altro grande capostipite, nei Promessi sposi. Terzo, un linguaggio in sintonia con la cultura materiale e spirituale dell'epoca in cui i fatti si svolgono: in un romanzo che si svolga prima della scoperta dell'America non si può sentir parlare, che so, di pomodori o di illuminismo e psicoanalisi. Quarto, personaggi a tutto tondo, in una interezza che probabilmente la distanza aiuta a costruire, mentre la contemporaneità induce alle sfumature, al non detto, al frammento, vedi il romanzo del canone novecentesco. I personaggi delle opere di Walter Scott o quelli di Notre Dame de Paris di Victor Hugo sono diventati essi stessi archetipi della fantasia occidentale, che li ha saccheggiati nel cinema, nei telefilm, nei musical, da Ivanhoe a Rowena, da Esmeralda al gobbo Quasimodo.
E infine il quinto punto, forse il più importante: uno sguardo che, rivolgendosi al passato, sappia intravedervi i semi del presente e, parlando di quanto è avvenuto ieri, ci illumini anche sull'oggi. Il romanzo storico non è affatto una fuga dal presente. È un altro modo di guardarlo, rispetto a quello di un Dickens, di un Balzac, di un Flaubert (che in ogni caso fu anche autore dello sfolgorante affresco storico di Salammbô), di uno Zola. Il Novecento segue una linea maestra che tende a escludere il romanzo storico, non ne scrivono né Svevo né Moravia né Gadda né Calvino, per non parlare poi degli allora numerosi sostenitori neoavanguardistici dell'antiromanzo. Tomasi di Lampedusa, quando finì Il Gattopardo, dalla forma di romanzo storico tradizionale, trovò difficoltà quasi insormontabili anche soltanto per pubblicarlo: uscì postumo, e l'autore non ne vide il successo clamoroso. Diverso è il caso di Umberto Eco con Il nome della rosa. Il romanzo, il primo e più fortunato tra quanti ne ha pubblicato in seguito, si avvale di tutti i cinque ingredienti tipici del genere storico. Eppure ha qualcosa di diverso e di più. L'abbazia in cui si svolgono i fatti è anche teatro di una serie di assassinii su cui il personaggio principale, Guglielmo da Baskerville, accompagnato dal novizio Adso da Melk, compie una indagine secondo le regole del poliziesco inaugurate da Arthur Conan Doyle. Due generi si sono incontrati e fusi, dando vita a un libro colto e a tesi, e nello stesso tempo appetibile anche per il lettore popolare. Insomma il romanzo storico si aggiorna e rivive, virando verso l'avventura, vedi l'opera di Valerio Massimo Manfredi, o verso sperimentazioni postmoderne, vedi Q dei Luther Blisset (poi Wu Ming) e Una storia romantica di Antonio Scurati. Quanto a me, dopo diversi romanzi ambientati nel passato, sto per pubblicarne uno i cui fatti si svolgono nella più immediata contemporaneità.
Ma se cambiano gli ingredienti e il linguaggio, il fine non cambia: costruire un romanzo che sia, come deve essere, una «educazione al fato», definizione che ho tratto, inaspettatamente, proprio dall'autore del Nome della rosa.
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