«Uscite, usc1ite, ovunque voi siate, sognatori ed emarginati, indolenti e disgraziati, cercatori d'ombre, orfani di sole. Uscite, uscite, impostori e ciarlatani, buoni a nulla e morti di fame, falliti, reietti, banditi dalla luce, beniamini delle tenebre. Venite, tutti voi, disonesti e addolorati, con i vostri pensieri neri e le vostre febbrili visioni rosse, venite, voi Ishmael da strapazzo, con i vostri occhi azzurri tristi, venite, sciacquette, sfigati, bisbetici e lagnosi, condannati e abbandonati, inetti e incapaci, venite, venite, pallidi romantici e ubriachi tontoloni, vecchie glorie e giovani promesse rimaste tali, voi, derisi dal sole e maledetti dalla luce, abitanti delle tenebre: uscite, uscite nella notte». Il Coro di voci notturne di La notte dell'incanto (Mondadori, pagg. 140, euro 17,50) di Steven Millhauser (Premio Pulitzer nel 1997) è il pifferaio che attira i bambini nel bosco notturno, è la voce che ci invita in un altro mondo, che pure è qua, basta vederlo, basta guardarsi dentro. I bambini non sono bambini: sono adulti, impauriti dalla loro stessa ombra, spaesati, isolati, terrorizzati da un virus, spiazzati da una guerra, disorientati dalle tecnologie che pensano di padroneggiare, resi ancora più insignificanti dalle forze di un pianeta che osano illudersi di controllare con arroganza. Con questa «novella», brevissima e poetica, Steven Millhauser ci trascina nell'altra faccia di noi stessi, in quell'universo fantastico e gotico che ancora oggi si può chiamare «perturbante», come lo definirono i primi critici ottocenteschi... E, se questo nostro mondo attuale non è «perturbante»...
Ecco, per esempio, che cosa scriveva Théophile Gautier di E.T.A. Hoffmann, del quale L'Orma ha appena pubblicato la raccolta Automi, bambole e fantasmi nella sua collana «Hoffmanniana» (pagg. 244, euro 18): «Il fantastico di Hoffmann non è quello delle fiabe; con un piede sempre piantato nel mondo reale, non lascia spazio nei suoi scritti a palazzi sfavillanti con torri di diamante (...) Questo profondo sentimento della vita, anche se inquietante e perverso, è tra i massimi meriti di Hoffmann, lo colloca ben al di sopra degli scrittori comuni e rende i suoi racconti più autentici e più verosimili di molti romanzi concepiti e partoriti con fredda saggezza». Ed è quel «piede piantato nel mondo reale» che ritroviamo, come una ispirazione, un cono di luce proiettato direttamente dall'Ottocento fra le ombre del XXI secolo, in alcuni romanzi, appena arrivati nelle librerie italiane, primo fra tutti La notte dell'incanto di Millhauser. Ritroviamo oggetti che prendono vita, come lo Schiaccianoci: un bellissimo manichino (femmina) che lascia la sua vetrina luccicante per andare a spasso sui marciapiedi male illuminati, bambole che danzano insieme agli orsacchiotti, ragazze che lasciano le loro stanze trascinate da impulsi irrefrenabili, amoreggiamenti con la Luna, scissioni del proprio io, melodie ipnotiche, maschere inquietanti... È strano, forse, che tutto ciò accada in una calda notte d'estate in una qualsiasi cittadina del Connecticut? Ma no, non è strano, almeno non lo è leggendo Millhauser. Scriveva sempre Gautier che in Hoffmann «il meraviglioso si manifesta in modo assolutamente naturale», di più, che il concittadino di Kant (era nato a Königsberg nel 1776 ma, a differenza dell'immenso Immanuel, si era mosso di lì, ed era poi morto a Berlino, nel 1822) fosse «uno degli scrittori più abili nel carpire la fisionomia delle cose e nel conferire tratti reali a creazioni inverosimili».
Ovviamente, la cosa più reale di tutte, e la più inverosimile insieme, siamo noi stessi. Come ci racconta L'eclisse di Laken Cottle di Tiffany McDaniel, giovane autrice (è nata nel 1985 in Ohio) già di culto grazie a L'estate che sciolse ogni cosa. Il protagonista, Laken Cottle, figlio di un orologiaio (come non pensare a un omaggio a Poe...) è uno scrittore piuttosto famoso, che si risveglia su una spiaggia della California, inspiegabilmente solo e abbrustolito dal sole, per scoprire che l'Antartide è scomparso, inghiottito da un buio misterioso che sta ricoprendo tutto il pianeta. Che cosa sia questo buio, che avvolge e uccide, e che gli scienziati non riescono ad analizzare e tanto meno a fermare, si scoprirà solo alla fine. Ma che sia il nostro buio, beh, questo è chiaro come il sole che Laken Cottle continua a inseguire e a fissare, per farsi accecare, come i moltissimi ciechi che vedono: «Il buio invade Praga, con il suo orologio astronomico e le posizioni in cielo del sole dorato, e poi la Romania e il castello di Dracula di Bram Stoker. Dracula, il demonio su uno scaffale assieme al mostro di Frankenstein e al lupo mannaro di Parigi. Questi mostri li conosciamo, ma di questo buio mostruoso non è mai stato scritto niente prima d'ora. Non sappiamo se questo buio vuole il nostro sangue, i nostri cuori o le nostre anime».
I cuori e le anime, la Morte e i demoni, e poi un cucchiaio misterioso, specchi che riflettono ciò che non vorremmo vedere, corvi, gatti, boschi infestati, lapidi... Tutto questo è La strada del ritorno (Bompiani, pagg. 352, euro 18) di Gavriel Savit, fiaba gotica con cui l'attore/scrittore (nel 2015 ha debuttato a Broadway, nel 2016 ha pubblicato il primo romanzo) è stato finalista al National Book Award. Sono molti gli eroi e soprattutto le eroine da salvare in questa fiaba, ambientata in uno shtetl, un villaggetto dell'Europa orientale dell'Ottocento, i cui abitanti dovrebbero recarsi al matrimonio della nipote del rabbino della città più vicina; ma molti saranno gli intoppi, perché alle nozze sono invitati proprio tutti, i vivi e i morti, le fate e i demoni, i santi e i malvagi, e l'Angelo della Morte avrà molto da fare.
Anche per farsi comprendere dagli umani, che vorrebbero ucciderlo, senza capire che è proprio lei, la Signora Oscura, la vera livella, che tutti ci unisce e perciò può renderci, finalmente, pieni di quella compassione che dissolverebbe almeno certe nubi oscure, certi incubi, certi veli che coprono i nostri cuori.
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