Come accade che una ragazza cresciuta con otto fratelli e sorelle nel Sud degli Stati Uniti, in una casa dove, di domenica, «attorno al tavolo della sala da pranzo, ci sono più persone di quante ce ne siano nel Partito comunista nello stato del Kentucky», finisca a vivere in una stanza in affitto (condivisa «con un giovane omosessuale del Kentucky dalle guance rosse») nel losco Hotel Schuyler, West 45th Street, Manhattan? E come succede, poi, che in quegli anni Quaranta e ancora di più dopo la guerra, quella ragazza non solo entri nel cuore di New York, ma la conquisti, almeno culturalmente parlando?
Per scoprirlo bisogna leggere Notti insonni (Blackie Edizioni), una specie di memoir/romanzo/saggio in cui Elizabeth Hardwick (1916-2007), ormai all'apice della sua carriera di scrittrice, saggista e, soprattutto, guru della critica letteraria americana, si racconta, dall'adolescenza nel Sud all'arrivo a New York e oltre, in giro per il mondo, fra l'Italia, l'Olanda, la Turchia, e poi su e giù per gli Stati Uniti, l'Iowa, Boston, il Maine. Notti insonni è il suo romanzo più famoso; quando viene pubblicato, nel 1979, Robert Lowell è morto da due anni. Il poeta è stato l'amore della sua vita, un amore totale, tormentato, difficile, interrotto e poi recuperato in extremis, come in un feuilleton, come testimoniano le decine di lettere che i due amanti si sono scambiati per anni (raccolte in italiano in Scrivere lettere è sempre pericoloso, Adelphi, 2014). Eppure, nelle Notti insonni di Elizabeth il nome di Lowell non appare mai, anche se si intravede a tratti, per esempio quando vanno ad abitare a Boston, la città di lui, che è un figlio dei «bramini», l'aristocrazia della città più aristocratica d'America.
Fra tira e molla, passione e depressione, Hardwick e Lowell sono tra i fondatori della New York Review of Books, nel 1963. La loro cerchia di amicizie comprende Elizabeth Bishop, Philip Roth, Mary McCarthy. Elizabeth, fra i due è la vagabonda, eppure è Lowell a provocare un vero crepaccio nel rapporto, quando si trasferisce in Inghilterra per lavoro e inizia un lungo affair a ostacoli con l'affascinante Lady Caroline Blackwood, scrittrice, ex moglie di Lucien Freud, erede della fortuna della birra Guinness. Il problema non è poi la relazione in sé, è che nell'opera Il delfino Lowell mette in poesia (insomma, sputtana) le reazioni di Elizabeth, ciò che ha scritto nelle sue lettere in quegli anni di sofferenza e separazione. Il delfino prende un Pulitzer, ma è uno scandalo, e suscita tutta la rabbia di Elizabeth (la vicenda è ricostruita in The Dolphin Letters 1970-1977, Farrar Straus & Giroux, 2019). «Tutto geme sotto il tradimento» scrive lei in Notti insonni, fra un incontro con Billie Holiday e i moltissimi ritratti di donne «normali», signore delle pulizie, ricche divorziate, ragazzine adescate al cinema, prostitute, giovani annoiate, la madre «mareale»... La prefazione è un articolo scritto da Joan Didion nel '79, e non a caso: c'è una risonanza fra il suo stile e quello di queste notti insonni, le Sleepless Nights che evocano il jazz, i palazzi degli artisti, uomini bellissimi, fughe, roulotte, carceri statali ed esistenziali, il padre idraulico, le corse dei cavalli. «A volte nutro risentimento verso il glossario, la concordanza della verità, che molti attribuiscono alla mia vita vera». Il problema sono i ricordi, che a volte tradiscono, a volte intrappolano, altre ancora sono un ostacolo, o un santuario.
E nessuno sa «cosa ricordare o fingere di ricordare», nessuno sa districarsi nella ragnatela, e allora non resta che aggrapparsi a qualche nodo, rievocare certe voci, quelle con cui parlare, parlare e parlare, durante le proprie notti insonni.
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