Quest’Italia, mai liberamente laica

Il nuovo saggio di Sergio Romano sui difficili rapporti tra Stato e Chiesa, da Pio IX a Papa Ratzinger, riapre una discussione secolare. E mai tanto attuale...

Quest’Italia, mai liberamente laica

«Mi sono chiesto perché tanti uomini politici facciano a gara per partecipare agli incontri annuali di Comunione e Liberazione, perché Massimo D’Alema abbia partecipato alle cerimonie per la beatificazione del fondatore dell’Opus Dei, perché Giovanni Paolo II abbia potuto indirizzarsi ai parlamentari italiani dalla tribuna di Montecitorio, perché il presidente del Senato abbia cercato di stringere un rapporto privilegiato con un cardinale che presiedeva allora la versione moderna del sant’Uffizio». L’occhio con cui Sergio Romano guarda ai rapporti tra il Vaticano e l’Italia da Pio IX a Benedetto XVI è quello del liberale nel solco tradizionale della destra storica. Già nel titolo del nuovo saggio, Libera Chiesa. Libero Stato? (Longanesi, pagg. 156, euro 14,50) traspare la trama del suo pensiero: la Chiesa ha potuto operare in condizioni libere fin dal 20 settembre 1870 mentre lo Stato separatista sembra oggi vacillare di fronte all’aggressività ecclesiastica che trova ascolto in correnti politiche di destra, di centro e di sinistra che talvolta si qualificano con la singolare etichetta di «atei devoti», come nel caso di Giuliano Ferrara.
In realtà i novelli «guelfi laici», da sempre attivi nella politica italiana in contrapposizione con i liberali, stanno travolgendo il confine tra lo Stato e la Chiesa che ha segnato i periodi più felici dell’Italia unita. Era stato Cavour, con la formula «libera Chiesa in libero Stato», a tracciare la rotta dei rapporti con il Vaticano fino al Concordato del 1929 e a cominciare dalla Legge delle Guarentigie (1871) che, non a caso, scontentò sia i tradizionalisti cattolici preoccupati per la libertà del pontefice e della Santa Sede, sia i democratici, i massoni e gli hegeliani contrari alle molte concessioni dello Stato alla Chiesa.
Ma gli oppositori alla formula cavouriana si sono sempre serviti strumentalmente della Chiesa per governare l’Italia. Così i massoni liberali che, per i voti cattolici, sottoscrissero il Patto Gentiloni che conteneva una clausola segreta che imponeva di combattere la massoneria. Così Mussolini il cui principale obiettivo nel 1929 fu la cattura del sostegno al regime fascista della Chiesa che con Pio XI parlò entusiasticamente del Concordato: «Ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale...». Ed infatti, anche allora, solo alcuni autorevoli senatori liberali, Luigi Alberini, Alberto Bergamini, Emanuele Paternò, Francesco Ruffini e Tito Sinibaldi si opposero al Concordato con le parole di Benedetto Croce: «Vi sono gli uomini pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza».
Nel dopoguerra la linea concordataria fu legittimata dall’accordo tra il comunista Palmiro Togliatti e il democristiano Giuseppe Dossetti con l’inserimento dei Patti Lateranensi all’articolo 7 della Costituzione. Ma il fatto nuovo della Repubblica fu la nascita del partito unico dei cattolici, la Democrazia cristiana, attraverso cui per quasi mezzo secolo è passata l’influenza della Chiesa sullo Stato.
È vero che De Gasperi, dopo la vittoria del 1948, nonostante disponesse con la Dc della maggioranza assoluta, preferì formare governi di coalizione centrista con liberali, repubblicani e socialdemocratici e, qualche anno dopo, si contrappose a Pio XII che voleva un’alleanza tra Dc e destre neofasciste per fronteggiare i comunisti a Roma, ma da allora in poi le cose andarono in maniera diversa: «È assurdo sostenere che la Dc abbia saputo tenere le distanze e difendere la propria autonomia \ più di quanto siano riusciti a fare in tempi recenti altri partiti. Su tutte le grandi questioni, dall’educazione alla famiglia, dal divorzio all’aborto, dal ruolo delle donne alle parti invecchiate del Concordato, le posizioni del partito cattolico erano condizionate da quelle della Chiesa».
Ma è dopo la fine della Dc, nella cosiddetta seconda Repubblica, che paradossalmente aumenta la spinta del mondo cattolico ufficiale per travolgere la separazione liberale e rivendicare alla Chiesa il monopolio dell’etica pubblica, quindi il diritto di proiettare la sua visione morale e religiosa (fecondazione assistita, divorzio, aborto, coppie di fatto, ricerca sulle cellule staminali, sessualità) anche sulla legislazione positiva dell’intera nazione. Tutto ciò mentre in Francia Dominique de Villepin, primo ministro conservatore, rinnova il vibrante elogio della storica legge del 1905 sulla separazione di Chiese e Stato «con la difesa della laicità nel quadro di una legge di riconciliazione che mise fine a secoli di storia religiosa fatti di violenza e di crisi e permise di pacificare durevolmente le reciproche relazioni». In Italia, invece, alle rinnovate pressioni antiseparatiste corrisponde l’ampia disponibilità del ceto politico d’ogni colore che invia segnali di amicizia e di devozione alla Chiesa di Roma abbandonando ogni tradizione liberale e laica. Certo, questi casi non sono nuovi nella storia d’Italia che ha conosciuto molti trasformismi di guelfi laici come con il socialista Leonida Bissolati che all’inizio del Novecento si oppose a tutti i tentativi di introduzione del divorzio compiuti dal liberale Giuseppe Zanardelli. I casi d’oggi sono sotto gli occhi di tutti: ad esempio «si potrebbe sostenere che Giuliano Amato, promotore di mediazioni fallite all’epoca dei referendum, è un lontano discendente di Giolitti del patto Gentiloni, e che Marcello Pera, che da filosofo liberale ha scoperto di avere una singolare sintonia con l’integralismo urbano e intelligente dell’allora cardinale Ratzinger, è un lontano discendente di Sonnino».
La voce di Romano, con l’autorevolezza dello storico e la passione del liberale, si leva come un monito contro i tanti trasformismi politici e gli imbrogli culturali che lievitano sul terreno dei rapporti tra Stato e Chiesa e tra religione e politica. Desta perciò stupore che alle sue limpide argomentazioni, il Corriere della Sera abbia contrapposto un quasi rimprovero per non avere abbracciato le tesi dei teo-con e dei neoguelfi italiani, antilaici e antiseparatisti.

Giovanni Berardelli ha scritto con inspiegabile presunzione (20 ottobre 2005) che «la tradizionale visione laica, di matrice liberale e risorgimentale, dei rapporti tra Stato e Chiesa - alla quale Romano si richiama in questi giudizi - non è sufficiente a spiegare un presente dai caratteri largamente inediti», rappresentati dalla ricerca scientifica che sarebbe sempre e comunque irresponsabile, e dalla manipolazione genetica che assedierebbe la civiltà moderna. L’imbroglio antiliberale, come sempre, punta sulla paura.
m.teodori@agora.it

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