QUESTIONE IMMORALE

Non è malevolo pensare che dietro l'agitazione della cosiddetta «questione morale» nell'Unione vi siano il vuoto politico e la babele delle idee. Se si invoca un «patto etico» come collante del centrosinistra significa che alla leadership del mediatore Prodi mancano solide visioni e significativi progetti politici.
A prendere l'iniziativa del «codice etico» sono stati i cosiddetti «saggi»: il giornalista Enzo Biagi, che dall'alto dei suoi 85 anni lamenta ancora l'esclusione dalla Rai, l'autorevole politologo Vanni Sartori, dimessosi da garante dell'associazione «Libertà e Giustizia» per protesta contro il dialogo finanziario De Benedetti-Berlusconi, l'economista Sylos Labini, che del grande Salvemini è solito ricordare solo le invettive contro il Giolitti «ministro della malavita», l'ex socialista Elio Veltri con una lunga consuetudine dipietrista, e lo scrittore Antonio Tabucchi pronto a girotondare sulle piazze. Quel che accomuna questi personaggi è l'estraneità alle lotte politiche dirette, la mancanza del consenso democratico e la convinzione di dovere compiere una missione salvifica per l'Italia che consiste nel liberarla dai berlusconiani raffigurati come nemici diabolici.
Del resto il ricorso al moralismo come arma impropria non è in Italia nuovo: lunga e significativa è la storia della confusione tra questione democratica e questione morale. Quando sono mancate idee, proposte e obiettivi in grado di offrire un'alternativa politica, oppure quando è stato difficile tenere insieme forze disparate, si è puntualmente fatto ricorso alla declamazione moralistica. Il capostipite della tradizione è stato Enrico Berlinguer, che inventò la questione morale per nobilitare la «diversità» comunista. In realtà allora l'obiettivo del Pci fu in un primo tempo l'accesso al potere tramite il compromesso storico con la Dc e la solidarietà nazionale contro il terrorismo che proveniva dal suo album di famiglia e, in un secondo momento, la distruzione per via giudiziaria degli avversari democratici, in particolare di Craxi, e di una parte della Dc e dei partiti laici. In quel caso fu Luciano Violante a utilizzare più d'ogni altro il moralismo berlingueriano trasformandolo in clava giudiziaria contro i partiti democratici, infiacchiti e corrosi da quel sistema partitocratico che comprendeva lo stesso Pci. Oggi, è sì vero che molti ritengono il «patto etico» un vecchio arnese, a cominciare dallo stesso Violante, dai riformisti alla Bersani che diffidano del moralismo, e dai margheritini che fanno notare come la proposizione di un codice morale significa che «non ci si può fidare degli esponenti dell'Unione». Ma, al fondo, una campagna elettorale condotta all'insegna della caccia alle streghe contro l'avversario resta una forte attrazione per tutta l'Unione.
La verità è che la tragedia di Mani pulite rischia di essere riprodotta in forma di farsa da parte di quegli stessi che la provocarono tre lustri fa, come nel caso di Tonino Di Pietro che elenca ben 102 punti di un possibile codice etico per il programma dell'Unione. È dunque inquietante il fatto che in buona parte del centrosinistra trovi spazio un dibattito su tale questione che la memoria della Repubblica dovrebbe relegare nella poubelle della storia.

Hanno ragione quanti, anche a sinistra, chiedono piuttosto di riempire il gran vuoto politico che caratterizza l'Unione e di pronunziare una parola chiara sulla confusione dei linguaggi che regna nella coalizione di Prodi.
m.teodori@agora.it

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