«Qui nasce qualcosa di bello... La Juve? Resterei anche in C»

Dopo il Ghana, umori e malumori del portiere: «I tifosi sappiano che sudiamo e rischiamo per l’Italia. E si dimentichino che sono bianconero»

nostro inviato a Duisburg
Petto in fuori e ciuffo gellato. Gianluigi Buffon detto Gigi, cuore che batte a destra e malesseri che ruotano a sinistra, ha il sorriso insincero dei giorni complicati che a volte turbano l’esistenza anche dei ragazzoni belli e ricchi, per giunta, accompagnati da bellezze invidiate. È una maschera, la sua, più che una sorta di tic ed è un bene che tutto ciò avvenga sotto il sole di Duisburg affinché non risulti tutto una favola, con il dolce finale garantito. Ha un solo vezzo, preso chissà dove e chissà quando: continua a citarsi in terza persona, Buffon, nel corso dell’intervista. Capita, di solito, a chi ha deliri di onnipotenza, e non è il suo caso, oppure a chi intercetta per la prima volta una disavventura. «Non mi sento Achille, mi sento come Gigi Buffon, basta e avanza, ho preferito starmene da parte per prepararmi come si deve al mondiale», la spiegazione del suo isolamento. Finito con il 2 a 0 rifilato sulla schiena del Ghana e dei tanti improvvisati nemici del calcio italiano. Impossibile nascondere i suoi umori e i suoi mal di pancia. Sfilando torvo dinanzi ai cronisti, nella notte di Hannover, non le mandò a dire: «Sono nauseato». Scusi, Buffon, nauseato da cosa? «Dalle tensioni, dal ritardo con cui abbiamo messo piede nel mondiale, dal fatto che solo ora si può parlare finalmente di calcio», la spiegazione postuma che ha un sapore diverso. Ah, ecco. Alla nausea è seguito l’orgoglio, «per la piccola soddisfazione che ci siamo tolti», «per il debutto prepotente nel mondiale», e, forse, per mille altri motivi che qui non è il caso di citare.
Magari anche per la necessità di rispondere sul tema più impegnativo del futuro della Juve e nella Juve. «La fortuna di questo club è avere alle spalle una grande famiglia, cento anni e passa di storia: loro daranno continuità alla società, nessuno deve preoccuparsi», racconta deciso, sicuro, come ai bei tempi andati. Non altrettanto quando deve impegnarsi sulle proprie scelte. «Devo prima prendere visione del nuovo progetto Juve, capire cosa succederà alla società, avere delle certezze: da qui partiranno le mie decisioni. E non sono spaventato dalla serie B. Non mi spaventa neanche la serie C», scandisce bene Buffon nella versione che gli è più congeniale, petto in fuori e la maglia con la «S» di Superman sulla pelle, come a Parma quando era solo un ragazzino sfrontato, sfacciato e tutti erano convinti che avesse i geni del fuoriclasse. Perciò forse valuta che sia il caso di dribblare la domanda del giorno, la richiesta di una grande amnistia, lanciata dal presidente dello Juve-club di Montecitorio. «Quello che penso io non si può dire, non ho titolo per giudicare», rammenta e qui potremmo indovinare quello che avrebbe da dire e trattiene a stento. Senza scommettere un solo euro.
Così, lasciata la porta aperta della Juve, e richiusa quella della nazionale col Ghana, è rimasto tra noi il Buffon più recente, petto in fuori e ciuffo gellato, sorriso spento. È uno che non nasconde quel che è accaduto prima del Ghana nell’albergo alla periferia di Duisburg e neanche prima nei giorni torridi di Coverciano e dell’inchiesta sullo scandalo Moggi. «Di sicuro c’era molta tensione, si respirava, si sentiva, poi all’improvviso, in campo, ho avvertito un clima positivo, mai registrato prima, nell’altro mondiale e nell’europeo di due anni prima, una sensazione che qualcosa di forte stesse nascendo»: è il passaggio da uno stato all’altro, da una condizione all’altra. E non è una questione personale. «A chi devo piacere, piaccio», avverte sicuro. Il tema semmai è quel che accade nel resto del Belpaese, con le sue contraddizioni. «I tifosi devono sapere che noi qui sudiamo e ci infortuniamo per l’Italia, deve venir fuori il senso dell’appartenenza, devono dimenticare che sono della Juve. La voglia di far festa c’è, entrare nello stadio di Hannover e trovare tanti italiani, mi ha fatto scattare dentro una scintilla, ho sentito una energia inattesa, una chimica che si è creata in tutta la squadra», è la testimonianza diretta e perciò didascalica.
In altri tempi, in altre stagioni, sull’onda magica di un semplice 2 a 0 inflitto al Ghana, Gigi Buffon sarebbe venuto avanti, caracollando, con quel passo da don Chisciotte e avrebbe promesso sfracelli. E invece no. Ha rimesso quel risultato luccicante dentro il perimetro di una partita, una sola. «Io non dico che vinciamo il mondiale, andremo fuori quando troveremo una nazionale più forte. Dico che una partenza così complicata non si era mai vista e la risposta è stata all’altezza della situazione, da parte dei miei compagni e da parte del mister» è la tenerezza di Buffon. Già, Lippi.

«Mi fa invidia, invidia buona, vederlo così», ammette. E se qualcuno pensa a una nazionale moderna, beh, la risposta è pronta. «Due anni di buon lavoro ci hanno garantito sicurezza» chiude. Non ha perso l’innocenza, Buffon, ha perso solo il sorriso.

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