Rabbia giustizialista

La decisione della suprema corte di Cassazione di annullare le sentenze di primo e secondo grado contro Cesare Previti, Renato Squillante e Attilio Pacifico, per la presunta corruzione nella vicenda Sme, costituisce un rospo che difficilmente i forcaioli possono ingoiare, anche se la loro capacità di deglutire è proverbiale e ideologica. I giudici di legittimità, con i poteri e le finalità di garanzia che l’ordinamento loro conferisce, hanno stabilito che, al di là di ogni ragionevole dubbio, i magistrati del pubblico ministero di Milano – per intenderci, il presunto salvifico pool di Mani pulite – non avevano alcun diritto di scippare il caso di paventata corruzione e di tenerselo stretto, in spregio a tutte le regole sulla competenza. Che, poi, sono quelle che garantiscono a ogni cittadino di essere processato dal suo «giudice naturale», che è quello previsto, prima che la procedura abbia inizio, dalla legge.
Insomma, c’è stato uno scippo. Per giudicare sulla presunta corruzione del magistrato Renato Squillante sarebbero stati competenti i magistrati di Perugia, ma la Procura di Milano si è arrampicata sugli specchi per non mollare l’osso, per mantenere viva e vibrante l’ansia di crociata contro il male, rappresentato, per definizione provvidenziale e scontata, da Silvio Berlusconi e dai suoi amici di impegno politico. Non basta: mollare la presa sul caso avrebbe significato affidare ad altri magistrati l’esame di una superteste discussa e discutibile, le cui dichiarazioni avevano dato l’avvio all’affare. Ed è stata tanta l’influenza politica, in senso lato, del pool Mani pulite, che i giudici di primo e secondo grado non hanno ritenuto di accogliere le eccezioni dell’imputato Previti, che da oltre dieci anni sostiene che il suo giudice naturale non è quello di Milano.
Sì, è un gran brutto rospo per i costruttori di teoremi, per i fautori della «via giudiziaria alla democrazia», per coloro che avrebbero voluto rinnovare il Paese, rivoltandolo «come un calzino», con una serie infinita di gogne mediatiche contro i nemici del popolo, in atto o in potenza.
Ieri i giornali di più squisita sensibilità forcaiola hanno sottolineato con enfatico rammarico che la prescrizione incombe, che la giustizia è sconfitta e che, insomma, un crimine rimarrà impunito. Ragioniamo. Sul caso Sme avremmo potuto sapere da tempo la verità se il giudice fosse stato quello previsto dalla legge e non dalla forzatura determinata dalla marea montante del giustizialismo. Cesare Previti avrebbe potuto dare la prova della sua innocenza se non si fosse trovato davanti pubblici ministeri che, scippando una competenza altrui, dimostravano pregiudizio.
Sono stati spesi inutilmente soldi, tanti soldi dei contribuenti, ma la colpa non è della giustizia che con la sentenza della Cassazione ha dimostrato di poter rimediare anche agli errori giudiziari. No, la colpa è di chi ha voluto gestire una procedura come un caso politico, rumoroso e mediaticamente remunerativo, in spregio alle regole.
Un brutto rospo, dicevamo. Anche per quei giornali che sono stati il funzionale supporto operativo del pool scippatore, contribuendo alla criminalizzazione degli imputati prima che la loro responsabilità fosse provata. Il clima di Mani pulite non può essere valutato e compreso se si ignora la sinergia fra certa stampa e certi pm demiurghi. E oggi quella stampa piange, perché comprende che il giudizio della Cassazione la riguarda, per l’appoggio acritico fornito sempre e comunque a quei pm, «a prescindere», come direbbe Totò.
Il commentatore del Corriere della Sera ieri, per dissimulare sconcerto e delusione, si è salvato in corner, ricorrendo a una similitudine calcistica per descrivere il capovolgimento del risultato allo scadere del tempo (in zona Cesare, non Cesarini). E ingenerando il sospetto che l’arbitro (la Cassazione) possa avere commesso un arbitrio. Altri sinistri giornalisti sostengono che il giudizio della suprema corte possa essere stato determinato da «briciole», cioè cavilli, come se le regole sulla competenza non fossero essenziali per la tutela dei cittadini.
La Repubblica supera se stessa. Un milite ignoto del giustizialismo – l’editoriale non è firmato, anche se ai tempi belli ogni cronista ambiva di firmare qualche infamia su Berlusconi e Previti – usa una prosa a tratti barocca per rivelare la sua delusione, i motivi del suo scontento. «Le ragioni – scrive l’uomo mascherato – ancora non si conoscono nel dettaglio, ma è sufficiente il titolo principale della sentenza, l’incompetenza di Milano, per rimanere di princisbecco». Che carino, lui rimane di princisbecco, come una signora di mezza età del XIX secolo. Ma si riprende, e stilla veleno: «È l’imprevedibilità della decisione della Corte Suprema, la sua contraddittorietà rispetto a decisioni analoghe degli stessi giudici di legittimità, che sprigiona intorno a questa sentenza una sgradevole arietta di compromesso e di furbizia. D’altronde i giudici non sono essenza angelica».
Incredibile.

I giustizialisti irredimibili ci hanno sempre esortati ad accettare i verdetti della magistratura, a «non delegittimarla». Ma si riservano il diritto di offenderla quando giudica in maniera difforme dai loro pregiudizi, dal loro odio ideologico, dalla loro ferocia politica.

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