Come fa uno che scrive, che ha letto certi libri, un «intellettuale», ad appassionarsi, a prendere sul serio la partita della domenica e il campionato e i campioni del pallone?i
La domanda, formulata con queste precise parole, se la pose Vittorio Sereni, che fu direttore letterario della Mondadori, grande poeta e, appunto, grande tifoso. Ma ce la poniamo tutti noi, che non siamo né intellettuali né poeti ma perdio, abbiamo comunque ben presente la scala di valori delle cose che contano, e sappiamo bene che ci sono gioie e dolori e sofferenze e pensieri ben più grandi e ben più grevi di un risultato ottenuto a colpi di calci a una palla; eppure quando guardiamo la nostra squadra del cuore soffriamo al di là di ogni ragionevole spiegazione, e questa squadra del cuore non riusciremmo a rinnegarla mai, neppure quando perde, neppure se si coprisse di ignominia per un qualsiasi motivo. Tutto si può cambiare fede politica, amori, perfino religione ma non la squadra del cuore. Perché?
Ecco, chi volesse davvero capire il tifo calcistico dovrebbe leggere il piccolo libro uscito ora da Mimesis, perché la risposta sta già nel suo titolo, lungo quanto il titolo di un film di Lina Wertmüller: Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita. Il sottotitolo è «Scritti sul calcio 1979-2004»; il libro (a cura di Rodolfo Zucco) raccoglie cinque poesie, dodici interventi giornalistici e due interviste di Giovanni Raboni (1932-2004), poeta come Sereni, del quale fu compagno di tifo nerazzurro e di gradinata a San Siro.
Perché ho scritto che Raboni ci fa capire davvero che cosa vuol dire essere tifosi? Perché sgombriamo subito il campo da un equivoco: non si tifa una squadra perché vince. Anzi. «Il vero tifoso è introverso, pessimista, malinconico, e dal suo essere tale ricava le sue rare, sofferte e ineffabili gioie», scrive Raboni. Vincere sempre stufa. Star sempre dalla parte dei vincenti non è né bello né educativo per se stessi. Chi vince sempre è antipatico.
«Si è tifosi di uno sport o di una squadra», scrive Raboni. «Per quanto mi riguarda, sono tifoso di entrambi. Come tifoso dello sport che si chiama calcio, mi appassiono a tutte le partite possibili e immaginabili: dagli incontri del campionato svizzero, quando a Milano si vedeva ancora la televisione svizzera, alle partite cinque contro cinque o sei contro sei giocate dai ragazzi sui campetti di periferia».
«Come tifoso di una squadra (ed eccomi al punto) sono tifoso dell'Inter. Non so da quando: forse da sempre. Ho assistito alla mia prima partita all'età di sei o sette anni, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Non ricordo che partita fosse; ricordo che giocava l'Inter (chiamata allora, per imposizione del governo fascista, Ambrosiana) e ricordo che vinse. I colori nerazzurri si saldarono così, in modo indissolubile per me, all'idea di una felicità festiva, di un'improvvisa leggerezza... alla sensazione che una cosa fosse andata bene...». È l'attimo magico e mirabile del colpo di fulmine, dell'innamoramento: un istante non più rimovibile per la vita intera. «La domenica pomeriggio si trasformò per sempre, dentro di me, nella promessa di una strana luminosità nitida e animata...».
Finita la guerra, Raboni torna a vedere l'Inter, che giocava allora all'Arena, «a due passi dal Castello Sforzesco: era anche quella una patente di nobiltà, di raffinatezza superiore e un po' decrepita, rispetto ai cugini del Milan che giocavano, invece, in periferia, in uno stadio moderno...». Era un'Inter ancor più decrepita dell'Arena, e Raboni impara a veder perdere la squadra del cuore. «Negli anni dell'immediato dopoguerra una serie di grotteschi infortuni e malintesi aveva ridotto l'Inter alla lotta per non retrocedere. Giocatori sudamericani comprati come campioni e rivelatisi dei brocchi o dei ruderi erano, alla fine, persino fuggiti; uno solo, l'ala sinistra Zapirain, che avrà avuto una cinquantina d'anni, rimase onestamente a recitare fino in fondo la sua parte di ex fantasista attaccato dai reumatismi... E si vide il vecchio Meazza, che non giocava da anni, tornare in campo per salvare la sua squadra: non correva, se ne stava quasi immobile a centro campo, ma i suoi passaggi smarcanti, le sue sciabolate lungolinea erano sublimi; e la squadra si salvò».
Ma che cos'è il mistero dell'amore? Raboni ha visto e come no tanti trionfi, ma nessuna Inter gli è cara come quella dei bidoni sudamericani e del Meazza a stento deambulante. «Che meravigliosa Inter era quella! Scalcinata ma ancora aristocratica (...) Il mio tifo nerazzurro non è mai stato, dopo, altrettanto forte e convinto: neppure negli anni Cinquanta, quando l'Inter ritornò grande con giocatori come Wilkes, Nyers, Lorenzi; nemmeno negli anni Sessanta, quando, sotto la guida dell'astuto petroliere Moratti e dell'antipatico mago Herrera, diventò grandissima e vinse tutto quello che una squadra di calcio può vincere, Scudetti, Coppe dei Campioni, Coppe Intercontinentali...».
Un tifoso atipico? Raboni non lo esclude ma non lo crede: «Atipici, per me (e anche terribilmente antipatici) sono i tifosi trionfalisti e aggressivi; quelli che schiamazzano dopo la vittoria, che insultano gli avversari...». Cosa che Raboni non fa nemmeno riguardo ai cugini del Milan, squadra passata più volte dalle polveri agli altari e viceversa, e quindi con tifosi degni di essere rispettati: «I soli tifosi che compiango veramente dal profondo del cuore, sono i tifosi della Juventus, con i loro punti di vantaggio, i loro record, la loro imbattibilità passata, presente e futura. Che cosa possono aspettarsi dalla vita? Altre vittorie, altri Scudetti, altre Coppe... Che tristezza, anzi: che noia, signori!».
Giovanni Raboni morì giusto vent'anni fa a Fontanellato, e chissà se sapeva che in quella cittadina del Parmense c'è un Santuario, all'interno del quale si può ancora vedere un ex voto
portato a piedi, da Milano, quale adempimento a una promessa alla Vergine dall'allenatore interista Eugenio Bersellini dopo lo scudetto del 1980. È una storia di cuore e di passione, e quindi di follia: gli sarebbe piaciuta.
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