Los Angeles. «Bill Murray fa parte della mia famiglia, è il padrino di mia figlia, l'ha tenuta a battesimo e sarà sempre nei miei film». Wes Anderson liquida così la vicenda che vede protagonista l'amico Murray, denunciato da una collaboratrice per comportamento scorretto, sul set di Being Mortal, la cui produzione è stata sospesa a causa della vicenda. Nel clima della Hollywood contemporanea Murray rischia di diventare un paria come accaduto a molti suoi colleghi, ma Anderson non ci sta.
L'occasione per parlarne è stata la presentazione di Asteroid City, l'ultimo film del cineasta texano, presentato a Cannes e in arrivo in Italia a settembre. Scritto a due mani da Anderson e Roman Coppola, il film è ambientato negli anni Cinquanta, in una città in mezzo al deserto del sud degli Stati Uniti dove ad una convention sullo spazio convergono studenti e genitori. Ma anche quella è una storia nella storia in un film-matriosca, in perfetto stile Anderson. Il cast è il solito crogiuolo di star: Margot Robbie, Tom Hanks, Scarlett Johansson, Bryan Cranston, Steve Carell, Adrien Brody, Jeff Goldblum, Edward Norton, Tilda Swinton, Willem Dafoe, Matt Dillon, Jason Schwartzman. Manca proprio Murray, una costante dei set di Anderson ma il motivo non risiede nella vicenda di cronaca. «Semplicemente era impegnato con un altro progetto», spiega il regista.
Colori da cartone animato, atmosfere vintage e allo stesso tempo futuristiche seccate al sole del deserto, clima da America in bilico fra viaggi spaziali e guerra fredda, Asteroid City è la versione «alla Anderson» di un film apocalittico, reso ancora più efficace dalla presenza dell'alieno Jeff Goldblum. «Era il clima degli anni Cinquanta, alieni a parte c'era la peggiore guerra della storia dell'umanità alle spalle, c'erano insieme uno spirito di rinascita e il terrore della bomba atomica, un periodo affascinante da esplorare».
Come le è venuta l'idea di questo film?
«Ci stavamo pensando da un po' di tempo, Roman Coppola ed io. Avevamo un'idea che poi naturalmente si è evoluta in qualcosa di molto diverso. Mi capita spesso: inizio qualcosa che prende una sua direzione e io la seguo. A volte sono strade tortuose».
In effetti i suoi film, dagli inizi con Bottle Rocket e Rushmore ad oggi con Grand Budapest e French Dispatch si sono fatti via via più complicati, quadri su quadri uno nell'altro. «È vero, lo riconosco. Ho fatto vedere questo film a Brian De Palma una prima volta e ha avuto una reazione, gliel'ho fatto rivedere ne ha avuto un'altra».
Quindi suggerisce di andare a vedere Asteroid City due volte?
«Non posso certo invitare il pubblico a spendere due volte tanto, ma forse sì, andrebbe visto due volte».
È al corrente del fatto che su TikTok ci sono moltissimi video girati con il suo stile e che ora addirittura sono stati fatti dei film «alla Anderson» con l'intelligenza artificiale?
«Lo so ma non li guardo».
Perché?
«Perché poi probabilmente mi chiederei: ma è davvero così che faccio i miei film? Mi sottoporrei a un mare di critiche. Non guardandoli salvaguardo me stesso».
Per fare capire i suoi film al cast realizza delle animazioni.
«Io lo trovo molto utile e chi lavora con me ormai è abituato. Gli attori vedono l'animazione, assorbono la mia visione ma poi la interpretano a loro modo. Per me è sempre affascinante vedere il frutto della loro stessa creatività rispetto all'idea che mi ero fatta io».
I costumi, come in quasi tutti i suoi film, sono dell'italiana Milena Canonero.
«Un'altra grande artista a cui è difficile mettere le briglie. Andava in giro per il set provando stoffe e costumi e dicendo: questo senz'altro non piacerà a Wes, ma piace a me».
E la lasciava fare?
«Certo, quello che amo del cinema è che non è il lavoro di uno solo ma il risultato di un progetto collettivo di artisti. L'interpretazione degli attori, le idee degli artigiani. Un film è un lavoro sociale ed è come la vita, non lo puoi mai controllare del tutto».
Eppure i suoi film sono caratterizzati dal suo personalissimo tratto.
«Vero, ma quando faccio un film, almeno all'inizio non so mai esattamente cosa voglio. Via via che prende forma, riconosco la mia grafia».
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