Silvio Berlusconi si proponeva, insieme a Fini, Bossi e Rotondi, di trasformare una situazione politica in una situazione istituzionale, come tale idonea ad essere presentata al Quirinale, ma senza invadere le prerogative istituzionali di Giorgio Napolitano. Infatti, sondaggi d'opinione, risultato delle elezioni amministrative, fischi sistematici a Prodi e calo vertiginoso di consensi, a fronte delle grandi accoglienze a Berlusconi che scala le percentuali dei sondaggi - sono tutti fatti noti al Capo dello Stato, teoricamente pronto a ritirarsi dietro le mura del fortino costituzionale in base al quale un governo sta al suo posto finché ha la maggioranza in entrambe le Camere per cui non si può parlare di elezioni anticipate.
Ma il fatto che il Governo non governi - e ricorra alla decretazione d'urgenza, già rilevata in modo critico dal presidente Napolitano -; che il Senato legiferi poco e ricorrendo al voto di fiducia, dove sono quasi sempre indispensabili i contributi dei senatori a vita non eletti, bloccando anche l'attività legislativa della Camera poiché il nostro è un bicameralismo paritario: questi sono fatti che mettono in evidenza un difficoltoso funzionamento delle istituzioni, e su questo punto il Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, non può restare indifferente. Anche perché è il Presidente che firma i decreti e quindi viene coinvolto in questo comportamento del Governo che sopravvive facendo dell'eccezione (la decretazione d'urgenza) la regola.
Non solo: un Parlamento bloccato da un Governo insicuro della propria maggioranza impedisce all'opposizione di svolgere il proprio ruolo perché la decretazione d'urgenza e il ricorso al voto di fiducia le impediscono di dare il suo contributo critico. Una tale emarginazione dell'opposizione non è sana dal punto di vista istituzionale ed è argomento più che sufficiente per legittimare la richiesta, da parte di questa, di un incontro con il Capo dello Stato.
Quindi non c'era bisogno di fare richieste specifiche. La semplice rappresentazione di questa realtà, di un Paese sempre più scontento di come è governato, di una situazione istituzionale che potrebbe pericolosamente saldarsi a un rigetto generalizzato della politica, sono due dati di fatto che sono stati ufficialmente sottoposti all'attenzione del Capo dello Stato. La palla è adesso nei giardini del Quirinale.
Romano Prodi, che ostenta serenità, deve preoccuparsene. Ieri ha dato un segnale. Dopo l'annunzio a sorpresa che il prefetto Gianni De Gennaro ha esaurito il suo mandato di Capo della Polizia che era stato fissato (da chi?) in sette anni, ha detto che per la scelta del successore si consulterà con l'opposizione. Ma deve preoccuparsi anche del fatto che Piero Fassino si è allineato sulla posizione di D'Alema per lanciare la candidatura di Walter Veltroni alla segreteria del Partito democratico. Certo, può trattarsi di un arroccamento tattico dei Ds che costringerà Francesco Rutelli a scrutare con più attenzione il proprio futuro. Ma se Prodi ha dovuto offrire all'ala sinistra dell'Unione la testa di De Gennaro su un piatto d'argento e prometterle anche la rinunzia allo scalone, vuol dire che comincia a mancargli l'ossigeno. Quanto poi l'ala sinistra dell'Unione gradirà collaborare con un Pd guidato da Veltroni, è il mal di testa prossimo venturo (anche per lo stesso Veltroni).
Dalla giornata politica di ieri sarà per tutti facile fare un confronto tra una sinistra al governo che si preoccupa di questioni di partito, e un centrodestra che ha posto il problema della funzionalità delle istituzioni.
Alessandro Corneli
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