Rarità e supermercati Ecco che whisky bevono gli appassionati italiani

Una «tavola ovale» con i mostri sacri del distillato: «Ci salveranno le microdistillerie»

Alberto Milan

nostro inviato a Glorenza (BZ)

«Là fuori ci sono almeno un milione di italiani che ogni tanto bevono whisky: la sfida è raggiungerli». Riuniti a Glorenza, a pochi km dal confine con la Svizzera, lassù nell'estremo Alto Adige, ci sono imbottigliatori, collezionisti, blogger, brand ambassador e distillatori. Sono chiusi qui in «ritiro spiritoso», più che spirituale, per fare il punto su cosa e come bevono davvero gli italiani. Sono chiusi qui per evitare il rischio di chiudersi in una torre d'avorio, una nicchia elitaria.

Un passo indietro. L'idea di una «Whisky Talk», una chiacchierata fra i mostri sacri che hanno fatto grande il single malt in Italia, è di Davide e Dario Cerantola. Ai due fratelli, proprietari del «Blend whisky bar» a Castelfranco Veneto e organizzatori del Revolution Festival (il 19-20 ottobre la seconda edizione), da qualche tempo frulla in testa un dubbio: come mai gli appassionati parlano di bottiglie introvabili e costosi single cask, mentre i consumatori bevono prodotti da supermercato? Non sarà che il whisky sta diventando passione settaria?

Ecco dunque questa «tavola ovale», che mercoledì scorso si è tenuta nel pittoresco borgo altoatesino dove sorge la prima distilleria nostrana di whisky, ovvero Puni, l'azienda creata nel 2010 dalla famiglia Ebensperger. Lukas, che insieme al fratello Jonas gestisce la distilleria, era uno degli undici cavalieri del malto. Posto d'onore a Valentino Zagatti, storico collezionista a cui è stato anche dedicato un museo (curiosamente ad Amsterdam e non in Italia, alla faccia della fuga dei cervelli e pure delle bottiglie). Presenti anche i due mitici imbottigliatori indipendenti Nadi Fiori e Max Righi, il presidente del «Whisky club Italia» Claudio Riva, il brand ambassador della multinazionale Diageo Franco Gasparri; a chiudere la squadra Diego Malaspina, gestore del sito di e-commerce Whisky Italy, il blogger Giuseppe Napolitano di «Il bevitore raffinato» e uno dei due organizzatori, il bartender Dario Cerantola.

Il problema - come emerso dalla discussione - è che l'Italia è un mercato strano. Si beve poco (solo 0,2 litri pro-capite l'anno contro i 2 dei francesi), eppure appassionato di single malt, soprattutto torbato. Si colleziona ma non si stappa. I festival fanno migliaia di ingressi (5mila all'ultima edizione di Milano, mille a Castelfranco), migliaia anche quelli che si sono iscritti ai corsi del Whisky Club Italia, peraltro molto competenti. Eppure tanti altri, ancora troppi, rimangono in superficie, senza lasciarsi coinvolgere oltre qualche sorso occasionale.

Colpa dei prezzi sempre più alti dei prodotti di eccellenza, oggetti della speculazione e della mostruosa richiesta dall'Asia. Inevitabile dunque che i consumatori si rivolgano alle bottiglie da supermercato. Che per qualcuno sono la «scuola dell'obbligo» del whiskofilo, il primo approccio. Non necessariamente cattivi prodotti, anzi: su certi marchi (Lagavulin, Talisker, Oban ad esempio) si sono «formati» in molti. Ma sono un'introduzione. Alla fine - è la conclusione della giornata - la missione di chi fa cultura ed educazione al whisky è alzare il livello e ampliare la platea. Senza snobismi e senza allargare il fossato.

Che presto potrebbe essere riempito. «La svolta - profetizza Claudio Riva - saranno le microdistillerie. In Italia presto ne sorgeranno a decine. E come con la birra, faranno da ponte fra i prodotti di largo consumo e quelli d'élite».

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