Lo chiamano referendum, ma è uno scacco matto in 26 mosse. È l’affondo finale sancito da una maggioranza che sfiorava il 59 per cento, del premier Recep Tayyip Erdogan alla Turchia laica dei generali.
È l’ultima decisiva mossa di una partita iniziata nel 2002 e conclusasi con laliquidazione di un’era durata 87 anni. Infatti il primo ministro ha detto: «Siamo a una svolta nella storia democratica del Paese ». La vittoria dei sì nel referendum per l’emendamento della costituzione di Ankara consegna definitivamente alla storia la Turchia secolarista fondata da Mustafa Kemal Ataturk, apre la strada all’ambiguo progetto di Turchia neo ottomana sognata dal primo ministro turco e da Ahmet Davutoglu, il ministro degli Esteri considerato l’eminenza grigia dell’esecutivo di Ankara.
La vera vittoria di Erdogan non consiste tanto nell’archiviazione di un modello di Stato ormai obsoleto quanto nella sofisticata manovra politica messa in campo per legittimarne la liquidazione. I 26 emendamenti costituzionali proposti dal governo non intaccano a prima vista la natura antica della Costituzione, non si scagliano contro il secolarismo di Ataturk, non propongono un nuovo modello di nazione. Ufficialmente sono emendamenti democratici, liberali e pienamente condivisibili, riforme indispensabili per sanare quell’obbrobrio di costituzione lesiva di diritti e libertà personali imposta dopo il golpe del 1980 dal generalissimo Kenan Evren.
Grazie a questa candida apparenza gli emendamenti sembrano aprir la strada a una svolta agognata e partecipata. Non a caso il referendum ottiene non solo l’imprimatur dell’Unione Europea che lo definisce un passo indispensabile per l’avvicinamento a Bruxelles, ma anche di molti intellettuali pronti, in altre occasioni, a condannare Erdogan e i ministri del Partito della Giustizia e dello Sviluppo spesso sospettati di preparare la transizione a un modello di stato nazional religioso.
Stavolta gran parte dello schieramento liberal democratico condivide l’orientamento dello scrittore Orhan Pamuk, protagonista di una dichiarazione di voto che suona come un totale e incondizionato sostegno al sì. «Voterò sì - dice Pamuk- perché, come tante persone qui, non voglio più colpi di stato....perché vorrei che la Turchia diventasse una società ... un Paese che non deve vivere sotto la minaccia di golpe ».
Propositi nobili, ma anche assolutamente indispensabili per consentire a quel volpone di Erdogan di far piazza pulita dell’ultimo gruppuscolo di generalissimi e alti magistrati pronti a negargli il pieno controllo delle istituzioni. La Costituzione del 1980 seppur assolutamente indifendibile da chiunque non prediliga un modello autoritario, conteneva gli ultimi anticorpi capaci di garantire la sopravvivenza del modello laico e secolarista. Gli alti magistrati cooptati dai militari e sempre pronti a difenderne o a giustificarne le mosse rappresentavano, nel bene e nel male, l’ultimo barriera capace di arginare l’irresistibile ascesa di una leadership apparentemente moderata che non ha, però, mai rinnegato il proprio passato islamista.
I 26 articoli cancellati ieri erano l’ultimo, estremo intralcio a un mandato popolare votato da una maggioranza ormai largamente estranea al modello laico di Ataturk e pronta, seppur con sfumature diverse, a rivendicare l’identità di nazione islamica. Se alla vittoria referendaria seguirà il prossimo anno una terza vittoria elettorale Erdogan e il Partito della Giustizia e dello Sviluppo avranno tutte le carte in regola per dar forma al sentire che li lega ai loro elettori.
Un sentire che inquieta non poco gli Stati Uniti e un’Alleanza Atlantica abituata a considerare Ankara l’ultimo baluardo alle porte dell’Iran e del Medioriente.
Un sentire in parte anticipato dalle recenti mosse di una Turchia che- dopo aver rotto i ponti con Israele e aver appoggiato la spedizione su Gaza di una nave di fondamentalisti travestiti da pacifisti – ha negato il suo sostegno alle sanzioni contro il nucleare iraniano votate dall’Onu.
Da qui a dire che la vittoria del sì porterà Ankara nella braccia di Teheran ce ne passa.
Di certo però grazie al voto di ieri Erdogan potrà muoversi più liberamente sia sul piano interno che su quello internazionale. E non rischierà più di ritrovarsi delegittimato dalle mosse di una Corte costituzionale che nel 2008 per un solo voto non riuscì a dichiarare incostituzionale il suo partito e l’esecutivo da lui guidato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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