«Le radici dell'antiantifascismo», più che un titolo, di qualche giorno fa, del quotidiano La Repubblica, è uno scioglilingua o forse un indovinello. Di solito si è antifascisti perché contrari al fascismo e si è fascisti perché contrari all'antifascismo... Gli antiantifascisti, par di capire, dovrebbero essere quelli che, pur non essendo fascisti, se la prendono con gli antifascisti. Sempre di solito tertium non datur, ma tant'è. Nel mondo della satira ci sono stati i fascisti su Marte, non si vede perché sempre su Marte non ci sia posto per gli antiantifascisti...
Facciamo un passo indietro. Il titolo in questione incornicia la recensione di un volume appena uscito per Einaudi, Processo alla Resistenza. L'eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022, di Michela Ponzani. Nel recensire lo stesso libro nello stesso giorno (potenza della casa editrice, sintonia di testate, fate voi), il Corriere della Sera ha scelto una titolazione meno criptica: «La Resistenza disconosciuta». «Spesso nel dopoguerra i partigiani furono messi ingiustamente sotto accusa» recita il catenaccio sottostante, laddove Repubblica parla della «giustizia ingiusta del dopoguerra, che processava uomini e donne della Resistenza». Dalla lettura del primo si evince che almeno qualche volta le accuse della giustizia dovettero essere giuste, mentre stando al secondo il processare chi aveva fatto la Resistenza era, di per sé, «una giustizia ingiusta». Detto in altri termini, chi vince ha sempre ragione, anche e soprattutto quando ha torto, perché non può avere torto se ha ragione. «La Storia che decreta il giusto e lo sbagliato», si legge nella recensione, «veniva capovolta nelle aule di giustizia». L'ideale sarebbe insomma una giustizia di Stato, ovvero politico-ideologica, con buona pace della separazione dei poteri e dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Più che un'Italia culla del diritto un'Italia marziana (non marxiana, se non perché si tratta del pianeta rosso...).
Facciamo un ulteriore passo indietro, meglio, di lato. Non è del tutto esatto dire che l'antiantifascismo non sia mai esistito. Ai tempi in cui una vulgata imperante associava la resistenza antifascista alla resistenza comunista e quindi l'antifascismo al comunismo, si verificarono casi di intellettuali che non essendo comunisti cercarono di tirarsene fuori senza espressamente dichiararsi tali. Culturalmente parlando, il Pci di allora aveva una potenza non trascurabile e insomma prenderlo di petto non era una buona idea. Circumnavigarono il problema, se così si può dire. Naturalmente, vennero accusati di essere fascisti, il tertium non datur da cui siamo partiti...
Tornando al libro in questione, nelle recensioni prima citate, a firma di Simonetta Fiori e di Walter Veltroni, almeno per la prima il sottinteso quanto a chi si nasconda dietro quella formula è lo stesso appena citato: «Magistratura compromessa col fascismo e classe dirigente incapace di cambiare norme e codici plasmati dal ventennio nero». Quanto alla seconda è più sfumato, non foss'altro perché l'amnistia «che consentì l'uscita dal carcere di più di diecimila fascisti», «un testo legislativo già abbastanza generoso», fu opera di un Palmiro Togliatti comunista e antifascista, nonché segretario di quel medesimo partito di cui a lungo anche Veltroni fu un esponente di punta, anche se senza saperlo. È suo quel «si poteva stare nel Pci senza essere comunisti», contrari all'ideologia comunista, che ancora nel 1993, quando era segretario dei Ds, gli valse un titolo del Manifesto: «Facevamo schifo».
Diceva Prezzolini che «se non ci fossero le imbecillità degli antifascisti quelle dei fascisti sarebbero più evidenti». Detto in maniera più meditata, è il mito della Resistenza come lotta di popolo e come artefice della caduta del fascismo a essere in questione: non tanto dal punto di vista storiografico, che da tempo lo ha riconsegnato alla sua realtà di fatto, quanto dal punto di vista del suo sempre più estenuato utilizzo politico, un mantra per nascondere un vuoto, la mancanza di un'idea, di un progetto di Paese. Un mito, oltretutto, usato in modo schizofrenico: da un lato negando al fascismo qualsiasi consenso, una presa di possesso perpetrata e perpetuata fra il disinteresse e l'ostilità degli italiani; di un'opera buffa prima, e poi tetra, che ha visto tutti contro, nessuno a favore. Dall'altro vedendo però il fascismo dappertutto, dando sempre e comunque del fascista a chi quel mito non lo accettava e non lo accetta. In realtà, aveva ragione Franco Fortini quando, ancora nel 1948, nel recensire l'assolutorio Lungo viaggio attraverso il fascismo di Ruggero Zangrandi, scriverà che «la grande colpa dell'intelligenza italiana d'oggi è quella d'essersi vigliaccamente rifiutata a ogni serio esame di coscienza (fatte salve alcune rare eccezioni) e di aver dato a intendere che la sua vita di quegli anni (vita larvale perché limitata nel proprio lessico) sia stata la sua resistenza».
È per non aver mai fatto veramente i conti con il fascismo, un esame di coscienza spietato, individuale e collettivo, che abbiamo un antifascismo di
questo genere, quello che, appunto, come ricorderà Ennio Flaiano, farà dire a Mino Maccari che «in Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Per gli antiantifascisti non è mai tempo.
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