Non dovrebbe meravigliarsi più nessuno. E neppure sdegnarsi: sorridere, semmai. Perché l’assegnazione (fra l’altro da qualche giorno semiscontata) del Premio Nobel per la pace 2007 ad Albert Gore conferma la radicata abitudine dei «giurati», cioè del Parlamento norvegese, di incoronare di alloro persone, a volte degnissime, a volte assai indegne, che si sono occupate, nel bene o nel male, di cause che con la pace non hanno nulla a che vedere. Albert Gore può avere fatto del bene in questo senso negli otto anni in cui è stato vicepresidente degli Stati Uniti, ma non è stato allora che gli hanno dato il Nobel. È stato adesso che lui ha prodotto un film di successo per una nobile causa come la protezione dell’ambiente, che può essere minacciato da tante cose, ma che non ha nulla a che vedere con un’attività dedicata a preservarci dalle guerre. Se poi si aggiunge che Gore aspettava questo riconoscimento perché ne potrà dipendere la sua decisione di candidarsi o meno per la Casa Bianca, si vedrà che prima il film e poi il premio non sono che un abile soffietto pre-elettorale.
Meglio così, d’accordo, che altre designazioni, le quali vanno dallo stravagante all’assurdo. Quella dell’anno scorso di Muhammad Yunus, geniale inventore di una bella banca del microcredito nel Bangladesh, cui sarebbe spettato semmai un premio per l’economia, oppure nel 2003 di Shirin Ebadi, coraggiosa dissidente iraniana per una causa femminista. O, di nuovo attuale, di Aung San Suu Kyi, eroica obiettrice di coscienza contro la giunta militare in Birmania, martire della libertà di opinione; ma, di nuovo, non particolarmente impegnata nella causa della pace internazionale.
Ma ci sono scelte ben più controverse: 1992 Rigoberta Menchú, perseguitata politica (o almeno testimone di persecuzione) in Guatemala e soprattutto autrice di un libro di memorie più volte denunciate come fantasiose; 1994 Yasser Arafat, accoppiato a Yitzhak Rabin, lui sì destinato a pagare con la vita sotto le revolverate di un fanatico un impegno per il dialogo, mentre ad Arafat sarebbe toccato, semmai, un «premio guerriglia»; 2000 Kim Dae-Jung, dissidente sudcoreano destinato a un’ulteriore carriera in patria, ma senza particolari proiezioni internazionali. Ma neanche lui è il peggio. Per stabilire un record, forse, bisogna risalire al 1973, quando fu incoronato (assieme a uno statista come Henry Kissinger, più dedito alla Realpolitik che alle testimonianze ireniche) il leader nordvietnamita Le Duc Tho, tanto pacifico che pochi mesi dopo aver imposto un armistizio del tutto favorevole ad Hanoi, rilanciò la guerra contro il Vietnam del Sud fino alla vittoria totale.
Se scorriamo la lista, insomma, vediamo che al massimo un premiato su cinque lo è per meriti (risultati o almeno gesti di straordinaria buona volontà) nella causa della pace che dovrebbe essere la motivazione unica del premio.
Economisti, scrittori e scrittrici, statisti e politici perseguitati in patria, funzionari dell’Onu a cominciare dall’ex segretario generale Kofi Annan, femministe, ecologisti: un elenco che rivela l’uso addirittura surreale che si fa ormai ogni volta di un Nobel chiaramente destinato a uno scopo.
Non è solo questo Nobel, del resto, ad essere attribuito fuori del seminato.
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