All'ottavo passo era stato ucciso. Un paio di revolverate, di cui una sparate in bocca quasi ad ammonire: non parlerai. E infatti Jack non aveva parlato. Jack Ellery era uno sbandato del Bronx finito sulla strada sbagliata - quella dell'alcolismo - mentre l'amico d'infanzia, Matt Scudder, si ritrovava sul fronte opposto. Gli sbirri. E proprio a lui, proprio a Matt Scudder toccò quel giorno occuparsi del caso Ellery. Di uno che conosceva. Di uno che aveva cercato di redimersi dopo una vita di errori. Ma non ce l'aveva fatta perché era arrivato all'ottavo passo. Quello in cui si esce dal tunnel. Il nono, secondo il decalogo degli alcolisti anonimi, è quello in cui si chiede perdono del male fatto a tutte le persone alle quali si è nuociuto.
Jack Ellery non è mai arrivato al nono passo. Toccherà a Scudder, all'amico dei tempi d'oro ricostruire perché qualcuno voleva del male al suo amico Jack. I due si erano ritrovati dopo che le loro vie avevano preso direzioni diverse. Matt aveva raccontato a Jack. Si era raccontato a Jack. E Jack si era raccontato a Matt. L'uno a ripercorrere la sua carriera di delinquente di piccolo cabotaggio. Uno che trovava il coraggio solo quando finiva la bottiglia. L'altro a squarciare il velo di tanti miti. Di una carriera in polizia che lo aveva inghiottito e dalla quale si era riparato facendo il detective privato. Senza licenza.
Ora toccava a Matt. Toccava a Matt frugare tra le pieghe di una società sordida, a caccia di chi aveva voluto la fine di Jack. E soprattutto perché. S'imbatterà in altri cadaveri. Faccia a faccia con la feccia per dare un volto e un nome all'assassino di Jack Ellery, l'amico d'infanzia. Ci riuscirà da solo con quel fiuto da segugio stanco che vuol restituire l'ultimo alito di verità a un amico morto ammazzato da chi non ha tetto né legge. «L'ottavo passo» (Sellerio, pp.
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