Dopo l'Ulivo e i Ds, i sindacati. Al festival di Sanremo dei soviet musicalioti, degli zombie sessantottini, della bella gioventù che non matura mai, al concertone del 1° maggio insomma, ci hanno provato di nuovo a mummificare Rino Gaetano. È vero, ci sono più cose fra la terra-terra delle zuffe di partito e il cielo del linguaggio politico di quanti incubi la nostra filosofia possa sognare. Che rabbia ad esempio quando la parola «liberale» diventa un prefisso inodore e incolore, cui agganciare qualsiasi desinenza ossimora, e tutti i furfanti si declinano liberalqualcosa, e non c'è leader della sinistra postcomunista degno di questo nome, da Bertinotti a D'Alema, da Mussi a Folena (giuro!) che non rivendichi un suo quarto di liberalismo.
Ma lo sopportiamo, tutto sommato è la riprova che avevamo ragione noi quando ci dicevano che liberale voleva dire fascista. E poi ci dissero che radicale voleva dire fascista, e come si fa chiamare ora la sinistra comunista per camuffare le sue origini e non dare troppo nell'occhio? E passi, vuol dire che avevamo ragione. Quando però dall'appropriazione indebita si passa al sequestro di persona, le cose diventano più delicate. Specie se si tenta di sequestrare una storia, una memoria, e di stravolgerne senza scrupoli il senso. Non sto parlando della querelle sul Pantheon del Partito democratico. No, parlo di una cosa, più seria. Di canzonette.
E di Rino Gaetano. Una cui canzone del 1975, Ma il cielo è sempre più blu, è stata abusata l'anno scorso dagli strateghi della campagna elettorale dell'Ulivo e di nuovo l'altra settimana dai registi del congresso di scioglimento dei Ds e poi l'altroieri dal palco di San Giovanni. Rino Gaetano è morto 26 anni fa in un incidente stradale e non può farci nulla. Ma il permesso di utilizzare la sua canzone in un congresso di partito, di qualsiasi partito, o in una campagna elettorale, o davanti a Cgil-Cisl-Uil, non l'avrebbe mai dato, questo è certo. E di sicuro non l'avrebbe dato agli eredi di quel Pci da cui veniva svillaneggiato come un cantante frivolo, un giullare, anarcoide, un disimpegnato. E che svillaneggiava a sua volta, nel calderone («qualunquista» gli dissero, i ciarlatani) dell'Italia arrugginita e senza antitetanica degli anni Settanta di Nuntereggae più.
Dal loro punto di vista i comunisti avevano ragione. Rino Gaetano era lontano mille miglia da ogni forma di intruppamento intellettuale, da ogni conformismo benpensante o progressista, e non era organico a nessuna setta di cantautorato buono tanto per un proletario festival dell'Unità quanto per una borghese ma gramsciana sala concerti. Se De Gregori cantava che la «Storia siamo noi» tutti, dai trinariciuti ai fascistelli erano virilmente d'accordo nel sentirsi marginali ma protagonisti, se Fossati soffiava retorica a pieni polmoni per ordinare all'intontito popolo della sinistra e magari anche a quello democristiano in sonno di alzarsi «che si sta alzando la canzone popolare», Gaetano faceva l'opposto. Quelli sono inni perfetti, da pagina dei frustrati a congresso, sembrano scritti apposta. Ma uno come Gaetano se tratta di politica scrive «E Beati i professori, beati gli arrivisti, i nobili e i padroni specie se comunisti», e poi sfotte tutti gli strafottenti: «Eya alalà / pci psi / dc dc / pci psi pli pri dc dc dc dc... Ue paisà / il bricolage / il quindicidiciotto / il prosciutto cotto / il quarantotto / il sessantotto / il pitrentotto / sulla spiaggia di capocotta».
In che modo la sinistra ufficiale si è sempre atteggiata verso Rino Gaetano ce l'ha del resto ricordato l'organo del correntone mussiano, Aprile: «Gli aderenti a quella sinistra che ancora preferisce i brani di Guccini alle più leggere melodie di Rino Gaetano non potranno non riconoscersi nella conclusione a cui Fabio Mussi desumibilmente perverrà... nel Partito democratico, noi non ci saremo». Ancora preferisce, appunto.
Proviamo a immaginare del resto allora come Gaetano canterebbe il Pantheon democratico-sindacale: Invece di «Cazzaniga / avvocato Agnelli Umberto Agnelli / Susanna Agnelli Monti Pirelli / dribbla Causio che passa a Tardelli...» avrebbe infilzato uno dietro l'altro tutti i candidati: «Berlinguer, Gramsci, Nenni, Craxi, Spinelli, Einaudi, Gobetti, Turati, Gandhi, Madre Teresa, Mandela, John F.
Marco Taradash
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