Risale dagli inferi il vescovo che mise Hitler in paradiso

Il Vangelo dell’Inclusione predicato da Carlton D. Pearson afferma che l’inferno è sulla Terra e che dopo la morte c’è redenzione per tutti

da San Francisco

All’inferno e ritorno, via San Francisco: l’itinerario inusuale di un religioso, di un pastore che ha perduto, per troppo amore, il suo gregge delle grandi praterie e adesso se n’è adunato un altro grazie a un interludio nei vicoli di quella che è considerata la Gomorra urbana. Una vicenda che, a dispetto di chi dà per concluso il medioevo e i secoli della fede, poteva svolgersi solo nell’America del XXI secolo e dei revival. Protagonista un vescovo. Comprimari una nonna missionaria e alcolizzata, un inquisitore fondamentalista, una emarginata eccentrica della California. Antagonista il diavolo. Con la partecipazione straordinaria dell’ombra di Adolf Hitler.
La storia di un giusto che abolì l’inferno per pietà dei dannati. Fino al giorno in cui ne fu travolto. Carlton Demetrius Pearson poteva dirsi un uomo felice, in pace con se stesso e con il mondo. Era vescovo della Chiesa di Dio in Cristo, una comunità di 7 milioni di fedeli, una delle tante denominazioni pentecostali, di orientamento particolarmente conservatore e fondamentalista. Aveva seguito una tradizione di famiglia fuori dell’ordinario: suo padre era un predicatore, e così il nonno e il bisnonno. Una religiosità ardente, una fede cantata e danzata nelle chiese, parlare in lingue, guarigioni per imposizione delle mani. I pentecostali del gregge di Pearson sono quasi tutti di pelle nera, come lui, e dunque in genere molto poveri. Nella congregazione di Tulsa, in Oklahoma, dove Carlton crebbe, erano così poveri che non si poterono mai permettere di realizzare il loro desiderio più vivo: dotare la loro chiesa di una vetrata colorata. Dovettero accontentarsi di comprare dei teli di plastica, dipingerli e incollarli alle finestre. Ma a riempire il tempio e nutrire le emozioni era soprattutto la sua voce, negli inni (per come canta i gospel Carlton Demetrius Pearson è stato insignito di due trofei, Stellar Awards) e nelle prediche. Discepolo di Oral Roberts, uno dei più famosi evangelisti americani del XX secolo, era diventato vescovo e influente. Partecipò a una campagna elettorale di George W. Bush, fu ricevuto alla Casa Bianca. La sua chiesa era tanto affollata che ne aveva dovuto costruire un’altra che tenesse fino a seimila fedeli per volta. E in questa poté fare installare i vetri colorati.
Come uomo di fede, e come uomo, aveva tutto, a cominciare dalla serenità. Fino al giorno in cui fu travolto dall’inquietudine della pietà. Guardava la tv, trasmettevano immagini di profughi dal Ruanda: persone ridotte a scheletri, bambini dal ventre gonfio e - Pearson lo ha raccontato da allora molte volte - «senza luce né vita nello sguardo rivolto a mamme che fissavano il vuoto». E a un tratto gli venne in mente: sono musulmani e dunque andranno all’inferno. Non ci sono mezze misure nella fede dei fondamentalisti evangelici: non c’è salvezza neanche per chi non ha rifiutato Gesù, ma semplicemente non ne ha sentito parlare. Per questo i genitori di Carlton erano diventati missionari: per salvare dalla dannazione delle anime come quelle, altrimenti destinate alla sofferenza eterna dopo aver tanto sofferto in vita. Il vescovo ripensò anche a sua nonna che in vecchiaia si era abbandonata all’alcol, a suo nonno che aveva commesso adulterio... Anche loro erano all’inferno. A pensarci Carlton si arrabbiò con i nonni ma scoprì di provare risentimento anche nei confronti di Dio: «Lo temiamo, lo serviamo, lo adoriamo: ma potremo mai davvero amarlo?».
Fu allora che sentì la voce, di dentro, ma «chiara come una campana»: «Ma credi proprio che siamo così?». Era la voce dello Spirito Santo gli parlava a nome della Trinità tutta. Gli spiegò che «l’inferno è un posto nella vita e dopo la morte siamo tutti redenti. Tutti». Per il vescovo fu subito Vangelo. Lo chiamò Vangelo dell’Inclusione e cominciò subito a predicarlo ai suoi fedeli, farli partecipi di questa ennesima Buona Novella: «L’inferno non esiste, non come ve lo abbiamo raccontato qui. Dio non ci vuole guidare con la paura della sofferenza eterna, ma con la propria bontà. Dio non giudica e non impone: ci offre la gioia di contribuire alla Sua opera. Quella che costituisce il paradiso».
I fedeli non gradirono, anzi contestarono e bisogna capirli. Non sono cresciuti nella saggezza generosa della cultura cattolica illuminata dal Perdono ma nella durezza angusta del fondamentalismo, del culto della Lettera e le parole del loro vescovo cominciarono subito a puzzare di eresia. I primi si allontanarono dalle funzioni, tra gli altri si trovò uno che illustrò il problema con un esempio estremo: «Tutti in paradiso? Anche Hitler?». E il vescovo Pearson, coerente, risposte di sì: anche Hitler, magari con un po’ di purgatorio in più. «L’ho mandato all’inferno tante volte Hitler, e con lui, per esempio, ogni maledetto mercante di schiavi e anche tante altre persone. Ma io posso mandare della gente all’inferno, perché non sono Dio. Dio ha sacrificato se stesso per i nostri peccati e non soltanto per i nostri, ma per i peccati del mondo intero. Credete forse che Hitler sia stato più potente del sangue di Cristo?».
Una provocazione che il vescovo Pearson riteneva santa, ma molti dei suoi fedeli no. E neanche i suoi superiori gerarchici nella sua chiesa. Il processo agli eretici non lo fanno solo i cattolici: il «Santo Uffizio» pentecostale imbastì il dovuto processo, espose gli argomenti dell’ortodossia, con un vigore come se usasse la Bibbia come martello sul cranio del pastore recalcitrante. Ricapitolarono tutte le volte che dell’inferno si parla nel Vecchio Testamento e anche nel Nuovo, da Daniele all’Apocalisse. Non c’era spazio, conclusero, per i sentimentalismi e neppure per il paragone tra i peccati, che durano al massimo 70-80 anni, e una punizione eterna. Dio, ricordarono appoggiandosi a un salmo, è un essere infinito e così ogni peccato contro di lui è degno di una infinita pena. E dunque il Collegio dei vescovi pentecostali afroamericani decise all’unanimità che l’insegnamento del vescovo Pearson era eretico.
I fedeli non aspettavano altro, la grande chiesa divenne deserta, ci rimase quasi solo il vescovo a guardare i «vetri colorati» di plastica. Fu l’ultimo sguardo perché lo sostituirono e lui si trovò disoccupato.
Stava precipitando nel suo inferno, che fu lungo e gli parve anch’esso eterno. Finché non gli giunse un’altra voce. Al telefono, stavolta. La voce un po’ roca di una donna sconosciuta della sua razza. Chiamava da San Francisco, da una piccola comunità senza arte né parte né mezzi né pastore. Avevan sentito parlare del Vangelo dell’Inclusione e lo invitarono ad andarglielo a esporre. Si incontrarono in due stanzette affollate e maleodoranti, senza neppure finestre cui appendere quelle vetrate di plastica: la platea consisteva quasi esclusivamente di omosessuali e prevalentemente di drogati. Pearson parlò, piacque, tornò a predicare speranza in quella specie di fogna. Finché un mattino - questa storia è ripetitiva come una favola - si fece udire un’altra voce, «bianca» e ben accentata. La chiamata veniva dalla cattedrale episcopale di San Francisco, una grande chiesa rispettabile, linda e vuota. «Ci dicono che lei parla molto bene, ma non ha spazio e noi ne abbiamo tanto. Se vuole il sabato pomeriggio è suo».
Andò e da quel giorno il reverendo Carlton Demetrius Pearson cominciò a risalire dagli inferi. Ritrovò ascoltatori, un seguito, delle preghiere e dei dollari. Presto potè voltare le spalle a questo benevolo esilio babilonese nella capitale dell’America miscredente e tornare a Tulsa, nella prateria, fra i suoi vecchi fedeli. Che tornarono.

Adesso in quella città dell’Oklahoma c’è di nuovo una grande chiesa in cui lui predica, restituito alla dignità episcopale da un’altra denominazione. A predicare a migliaia il Vangelo dell’Inclusione. Senza essersi rimangiato nulla: neppure l’ammissione in paradiso di Adolf Hitler.

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