Al di là dei necessari accertamenti della magistratura, per la quale chi scrive «non» ha molto spesso il massimo della fiducia, il quadro delle indagini che emerge sull’area dalemiana del Partito democratico è particolarmente deprimente: un sistema di collegamenti poco chiari, di scambi di favori, di alcune probabili «patrimonializzazioni» personali, una realtà che dimostra anche una certa continuità rispetto al passato «comunista» ma senza più niente anche lontanamente di quella sorta di alone tipico dei finanziamenti illegali di un’organizzazione convinta di un destino rivoluzionario.
Si assiste sostanzialmente a una vecchia macchina che continua a macinare vecchia acqua ma senza più alcuna delle giustificazioni di un passato segnato da una cosa enorme come la guerra civile europea che dal 1914 al 1989 ha sconvolto il nostro continente.
Molte mosse tattiche di Pier Luigi Bersani appaiono di repertorio, solidamente «classiche»: così la demonizzazione dell’avversario, così la tattica mirata a isolare «il nemico principale» Silvio Berlusconi per poi costruire su questa base un’alleanza a proprio favore, in tanti slogan propagandistici messi in circolazione si coglie l’eco di una antica sapienza che ha avuto pochi rivali per decenni. Insomma se si considerano le «parole» pare di risentire il suono di cose dette e ridette negli anni della Prima repubblica da parte dei nipotini di Palmiro Togliatti. Però la pelata bersaniana invece di ricordarci Lenin richiama alla mente Maurizio Ferrini, piuttosto che farci venire in mente l’Armata rossa riporta a borselli e pedalò. Le sue grida paiono solo disperati e sgraziati tentativi per non pagare il biglietto che i vari soci, da Nichi Vendola a Rosi Bindi (per conto di Romano Prodi), e il burattinaio oggi in azione, Carlo De Benedetti, si preparano a presentare. La particolarmente insensata caciara antiberlusconiana sembra più una via per un «speriamo che io me la cavo» che una strategia di lotta. Anche persone organicamente e storicamente «collegate», da Susanna Camusso a Giuseppe Mussari, non guardano più allo stato maggiore ex comunista del Pd per orientarsi: cercano piuttosto di intrecciare alleanze con una Emma Marcegaglia alla ricerca di un qualche destino che con la banda di fantasmi rappresentata da Bersani. Anche le toghe amiche (basta considerare persino il vecchio stratega della magistratura militante Luciano Violante) ormai preferiscono «mandare» ordini di servizio via avvisi di garanzia, che dialogare con i «compagni» come esemplarmente faceva per esempio un Gerardo D’Ambrosio.
Quello a cui si assiste è la fine di una vicenda iniziata nel 1992 quando gli eredi di una forza fondatrice della Repubblica, il Pci, preferirono per non pagare i conti con il proprio passato, abdicare al loro ruolo nazionale, alla radice delle proprie basi sociali (da quegli anni furono molto più attenti agli interessi di certe banche che a quelli degli operai), affidare la gestione della Repubblica ai pm invece che a una Costituzione rinnovata.
Una forza di cui si ha tutto il diritto di pensare tutto il male necessario ma non di celarne la grandezza, si trasformò così in una gigantesca nomenklatura occupata essenzialmente dall’impegno a salvare se stessa. È questo il cadaverone con cui deve fare i conti la politica nazionale.
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