«Roberto Longhi buca i perimetri della storia, senza far parte di una soltanto», dice Tommaso Tovaglieri che al «mito del più grande storico dell'arte del Novecento» ha dedicato il suo ultimo volume, dove inquantificabili ore di ricerca sono diventate Roberto Longhi (ilSaggiatore, pagg. 608, euro 38). Non una biografia, piuttosto uno zibaldone documentatissimo che comincia quando tutto finisce, ovvero da quel 3 giugno del 1970, data della morte di Longhi, nato ad Alba nel 1890, per insistere sulla sua eredità.
Tovaglieri, perché, oggi, un memoir su Longhi?
«Per colmare una lacuna: la ricostruzione completa della sua vita e del suo lascito non era ancora stata fatta».
Possibile?
«Per troppo tempo la Fondazione che lui volle creare per raccogliere la sua eredità è stata pressoché inaccessibile: lo spazio in via Fortini 30 a Firenze che conserva ancora oggi lettere, volumi, foto, opere d'arte era diventato un fortino dove era difficile reperire materiale utile a tenere viva la memoria di Longhi, che infatti si è persa. Ora per fortuna la gestione è cambiata».
Per che cosa andrebbe ricordato, più di tutto?
«Per le sue Proposte per una critica d'arte: lì Longhi ci dice che l'opera d'arte non sta mai da sola, ma è condizionata dal contesto. Dice anche che il gesto critico non è affare da eruditi. Per Longhi è critica d'arte il lamento del capraio greco che vede prendere i marmi del Partenone dagli inglesi o il gesto della signora Giulia Ramelli, italiana di Versailles, la quale, davanti alle facce scandalizzate degli astanti per la nudità dipinta, chiede a gran voce a Manet il prezzo della sua Olympia. Longhi ci dimostra che nella vita bisogna saper scegliere».
Quindi, longhianamente, Morandi sì e Fontana no?
«Per lui le bottiglie di Morandi toccano uno zenit metafisico e sono grande contemporaneità. Fontana fa parte di un'altra storia, cui Longhi sente di non appartenere. Detto questo, il suo genio sta nel modo in cui argomenta ciò che critica. Da Buonanotte, signor Fattori, per dire che i Macchiaioli non reggono il passo degli Impressionisti, al Canova nato morto».
Non ama nemmeno Leonardo.
«Lo definisce uno speleologo, infastidito dal fatto che la pittura per lui fosse uno strumento di indagine, non il fine».
Longhi è una citazione continua.
«Scrive come un drago: il suo maestro è Gabriele d'Annunzio. Come scrittore è stato un detonatore: Arbasino, Gadda gli devono molto. Contini lo inserisce nella sua storia della letteratura anche se non aveva pubblicato un rigo di narrativa, cosa che fece uscir di matto più d'uno. Calvino all'Einaudi si sfogava con i colleghi: Non lo capite - diceva - che Longhi è l'arbitro della cultura?».
Pasolini lo aveva capito.
«All'inizio Longhi diffidava di quel personaggio dal doppio nome, che gli aveva chiesto una tesi di laurea. La tesi non fu mai redatta, ma di Pasolini, del suo cinema e dei suoi scritti, Longhi è sempre stato orgogliosissimo e PPP ha ribadito più volte, anche in calce alla sceneggiatura di Mamma Roma, che il critico d'arte fu il suo vero maestro».
Non si può parlare di Longhi senza passare da Caravaggio, del quale cominciò a occuparsi nel 1911, quando il Merisi era uno sconosciuto nella storia dell'arte.
«Caravaggio è diventato il brand di punta dell'eredità di Roberto Longhi, ma vorrei ricordare che, tanto per fare qualche esempio, capì prima di altri anche Cézanne, Renoir, Piero della Francesca. Tornando al Merisi, in una storia dell'arte fino ad allora tosco-romano centrica, Longhi ridisegna la mappa. Questo perché ha un grande occhio ed è uno spadaccino della parola: non ha soltanto scoperto il lombardo Caravaggio, lo ha ben raccontato. Il trittico di mostre per Palazzo Reale di Milano nel '51, nel '53 e nel '58, dedicate a Caravaggio, ai pittori della realtà e all'arte dai Visconti agli Sforza, sono un kolossal in tre atti. Longhi è stato un grande storico dell'arte e un abile comunicatore».
Anche di sé.
«Curava la sua immagine, amava le apparizioni in tv e ha ideato una sua fondazione, cosa fino ad allora impensabile per uno storico dell'arte».
È vera la leggenda del francobollo di dipinto che mostrava ai suoi studenti, incalzati a dire chi fosse l'autore da un minuscolo dettaglio?
«Era il famoso esame dei riconoscimenti. Per Longhi l'incontro con l'arte è un corpo a corpo. Lezione attualissima: Longhi ci stimola a fare delle scelte, a non fidarci della selezione di altri».
Come compagna di vita scelse Anna Banti.
«Negli anni in cui Longhi era il nonno da mandare in soffitta, sono girate tante cattiverie sul loro rapporto: sono stati invece una coppia unita, anche se non hanno avuto figli. Banti era scorbutica, ma Longhi la stimava intellettualmente e ne era appagato. Ci sono dei disegni a lei dedicati di elegante erotismo».
Era sedotto anche dalla politica?
«La trattava con distacco. Ha avuto tra i suoi allievi Bottai, era vicino a Giovanni Gentile, ma è stato il primo dei docenti dell'Università di Bologna a dimettersi nel '43, alla nascita della Rsi. Negli anni seguenti è stato descritto vicino al Pci e Ferruccio Parri fu l'amico più importante della sua vita.
Longhi non è etichettabile, anche se ci ha insegnato l'importanza di battersi per ciò in cui si crede, con rispetto per l'avversario, che va conosciuto prima di criticarlo. Oggi si preferisce non scegliere, mentre la sua lezione è contro la logica del vale tutto: Longhi ha sempre detto da che parte stava».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.