Rom del campo di via Triboniano costretti a fingere di non essere nomadi pur di lavorare. Sembrerebbe un racconto inventato, visti i tempi che corrono e i numerosi reati di cui si macchiano gli zingari, mentre è la storia di Gino e di diverse altre persone come lui. Un rom vero, grande e grosso, in Italia da 10 anni e con domicilio in una baracca di via Triboniano. E che non passa la giornata tra scippi o elemosina, ma, a dispetto del fisico possente e delle mani poderose, lavora dalla mattina alla sera in un negozio di antiquariato. Tra un orologio svizzero dell'Ottocento da aggiustare, una lampada liberty da rimettere in sesto e i clienti, spesso collezionisti dai gusti difficili, da accontentare ogni volta.
«Per noi di via Triboniano non è facile trovare lavoro - racconta Gino -. C'è una regola non scritta in Italia: "Se sei rom conosco già il tuo curriculum vitae". È anche per questo che tanti nomadi lavorano in nero, o sono costretti a non rivelare dove abitano pur di ottenere un'occupazione». Il campo di via Triboniano fa paura e basta pronunciarne il nome per essere messi alla porta. «Per un imprenditore che cerca qualcuno da assumere è come il fumo negli occhi», aggiunge Gino. Anche se non è facile tenerlo nascosto a lungo. La «residenza in via Triboniano» scritta sulla carta didentità segna la fine del colloquio di lavoro, o rende difficile ottenere un prestito in banca.
«Mio fratello un mese fa ha chiesto un finanziamento da 10mila euro all'istituto di credito dove da anni ha aperto il conto corrente - rivela Gino -. "Non possiamo dartelo perché non ci offri nessuna garanzia", gli hanno risposto. Eppure lui ha un lavoro che gli assicura un'entrata mensile, paga le tasse, rispetta le leggi, insomma fa tutto come un italiano. Tranne che per l'abitazione. Ma allora è un circolo vizioso: se non hai una casa normale non ti fanno prestiti, ma la casa come la compri se nessuno ti dà credito?». E così, il giorno dopo, il rom è tornato in banca e ha chiesto di chiudere il conto corrente. Stanco di essere un correntista di serie B.
I rom come Gino comunque non contestano le istituzioni, ma ritengono che il Comune, oltre a cercare di aiutarli a integrarsi come già sta facendo, dovrebbe fare una cosa di più: ascoltarli. «Se non c'è dialogo - considera il nomade -, come fa Palazzo Marino a capire quali sono le nostre necessità? Siamo pronti a collaborare per vincere i pregiudizi».
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