Stava parlando del più e del meno al cellulare proprio come fosse in libertà e non nel carcere romano di Rebibbia. Ad accorgersi di questa anomalia è stato un agente di polizia penitenziaria mentre effettuava il consueto controllo delle celle. È successo in uno dei piani della quinta sezione della casa circondariale di via Bartolo Longo che ospita circa 100 detenuti. Alla vista dell’agente, il detenuto, un uomo di trent’anni, ha inscenato il maldestro tentativo di nascondere lo smartphone. È stato inutile e così è scattata la perquisizione della cella dove, racconta Il Messaggero, è stato trovato un vero e proprio arsenale di apparecchi non ammessi: un caricabatterie, un paio di auricolari, altre due schede sim e persino una chiavetta usb. Come è arrivata lì dentro tutta quella roba?
Non è stupito dell’accaduto Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma della Polizia Penitenziaria. Secondo Beneduci, infatti, “le carceri italiane sono diventate delle enormi cabine telefoniche con i detenuti che senza troppi problemi conversano in assoluta tranquillità dalle proprie celle detentive, incuranti anche di essere scoperti”. Questo perché, spiega il segretario dell’Osapp, il possesso di un telefono cellulare comporta una sanzione disciplinare e la tenuità del provvedimento ne “limita fortemente l’efficacia deterrente”. Ma non solo.
Perché in alcuni istituti penitenziari, denuncia Beneduci, i procedimenti disciplinari a carico dei ristretti verrebbero lasciati cadere in prescrizione. Insomma, chiosa il rappresentante sindacale, “siamo al paradosso che la legalità è un principio che in molti casi è espunto dal regime carcerario italiano”.
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