Dove la storia finisce (Mondadori) è il nuovo romanzo di Alessandro Piperno. Un romanzo in cui, prima che la «storia» inizi davvero, cioè prima che i Grandi Eventi destinati a segnare il corso dell'umanità irrompano nelle piccole vite quotidiane dei personaggi, e anche di noi lettori - e questo avviene nelle ultime 20 pagine - per le precedenti 250 si narrano le vicende minime (affettive soprattutto) di due famiglie romane. E proprio il fatto che per 250 pagine non accada nulla di romanzesco (niente conflitti, niente amori folli, niente sesso, viaggi, avventure, omicidi...), e nonostante ciò la tensione narrativa sia sempre massima, lo rende - a detta di chi scrive - il romanzo italiano più interessante della stagione.
Bene Piperno. Che trucco ha usato? Come si riesce a ipnotizzare il lettore parlando solo dei rapporti padre-figli, marito-moglie, fratello-sorella?
«Con alcune scaltrezze. Sfruttando l'esperienza dei libri precedenti. E facendo una scelta precisa. Quella di togliere di mezzo il Narratore e di tenere sempre il punto di vista dei diversi personaggi».
Perché hai buttato il Narratore?
«Perché può diventare noioso».
Perché hai tenuto solo i personaggi?
«Perché se tu sei onesto quando racconti le cose dal loro punto di vista, la gente ti ascolta».
Che personaggi sono i tuoi?
«Molto fragili. Tradiscono, fingono, mentono. Io non li giudico. Ma questa fragilità credo sia un elemento narrativo forte».
Basta questo?
«No, ma è qualcosa. Poi ci sono le scaltrezze. Ti faccio un esempio. Senza paragonarmi a Tolstoj, sia chiaro. Ma in Anna Karenina nelle prime cento pagine, per tenerti attaccato alla pagina, lo scrittore fa in modo che ogni personaggio pensi al personaggio successivo, così che ti sia già familiare quando lo incontrerai poco dopo. Nel mio piccolo, ho fatto la stessa cosa. Un espediente tecnico. Poi, certo, c'è la storia...».
Che rapporto c'è tra la piccola storia quotidiana e la Grande Storia guerre, crisi, scontri di civiltà, il ritorno della paura, gli attentati kamikaze - che a un certo punto entra nelle nostre vite, e nel tuo romanzo?
«Altra premessa. Sono sempre stato ossessionato dagli attentati...».
Stai spoilerando il tuo romanzo. Io non ho detto che a un certo punto c'è un attentato terroristico...
«Non importa. Chi vuole leggermi, mi legge lo stesso. E agli altri non interessa. Comunque. Sono sempre stato ossessionato dagli attentati. Fin da quando, negli anni Ottanta, sono stato in Israele, durante la prima Intifada. E c'era questa atmosfera elettrica... Capivi che poteva succedere qualcosa, anzi sapevi che sarebbe accaduto. E io continuavo a chiedermi: ma cosa succede nella vita di chi sta per essere ammazzato in un'esplosione nei sei mesi precedenti la data fatidica? Pensandolo oggi, è come se mi chiedessi: ma cosa succede nella vita delle vittime del Bataclan nei sei mesi precedenti la sparatoria?».
È così che è nato il romanzo?
«Sì. E anche il titolo. Cinque anni fa ho cominciato a pensare alla storia di due famiglie che restano coinvolte in un attentato a Roma. In quel momento non era una trama plausibile. Chi poteva pensare una cosa del genere, all'epoca? Mentre ora, che la Storia mi ha superato a sinistra, quello che accade nel mio romanzo non sembra una visione. Ma una didascalia a una foto già vista... La cosa più interessante, però, è che nessuno pensa mai che la Storia - dico la grande Storia - possa sconvolgere così le nostre piccole vite. Mai. Prendi Isaiah Berlin. Un grande pensatore, una persona disincantata. Uno che vide e visse il peggio del '900. Eppure...».
Eppure cosa?
«Eppure quando, da vecchio, consegnò il suo Messaggio al Ventunesimo secolo, ai ragazzi disse cose tipo: Voi conoscerete la libertà, la tolleranza, i diritti civili.... Capisci? Era un gigante, e ha sbagliato tutto. Ecco, l'idea che un uomo così grande sia caduto nell'ingenuità di pensare che la Storia si sarebbe fermata e avremmo vissuto tutti felici e contenti, mi ha affascinato al punto da scriverci sopra un romanzo. E non è stato un errore solo di Berlin, sia chiaro. Nel 1913 nessuno in Europa sapeva cosa sarebbe accaduto da lì a poco. Così a Weimar. Ma scusa. Se un anno fa ci avessero detto che Putin avrebbe messo in guardia i cittadini russi - Stiamo attenti, prepariamoci, potrebbe accadere qualcosa... - beh, noi non ci avremmo creduto. E invece l'ha appena detto».
Stai dicendo che sei pessimista?
«Sto dicendo che ci aspettano anni spaventosi. E il peggio è che non lo sappiamo. Non lo aspettiamo. Non ci pensiamo. Come accade alle due famiglie del romanzo. Fino a quando accade».
Le due famiglie del romanzo sono famiglie borghesi. Una cattolica e l'altra ebraica. Ma entrambe vivono per godere e nello stesso tempo distruggere i valori borghesi. È così? Esiste ancora la borghesia?
«Mah... Sì, quelle del romanzo sono famiglie borghesi. Ma nella realtà a Roma la borghesia non esiste più, forse a Milano. E se c'è si è immeschinita. Ha perso completamente quei valori, magari un po' ipocriti ma che si ammantavano di una certa ragionevolezza, che erano i principi borghesi. Ora non c'è più nulla. Un deserto morale e fisico. Guarda Roma. È una città spaventosa, cattiva, triste. La gente è violenta. La Natura sta prendendo il sopravvento sulla città. Nascono nuove specie di insetti vicino ai cassonetti... I gabbiani sono enormi a furia di mangiare la nostra spazzatura... Quella che metto in scena e prendo in giro è niente più che una middle class un po' arricchita, imbolsita, grottesca. La borghesia è morta».
E la letteratura? Nel romanzo, a una borghesissima festa in spiaggia a Sabaudia, un tuo personaggio un intellettuale di fama televisiva dice che la narrativa è morta. Esiste solo l'autofiction.
«Adoro il birignao festaiolo, quello degli intellò poi... Un mondo perfetto da parodiare. Infatti dire che oggi esiste solo l'autofiction è ridicolo: fare fiction sulla propria vita è una cosa che l'arte fa da secoli... Così come è ridicolo dire che non c'è più buona letteratura. Anzi: ce n'è di eccellente».
Tipo?
«Pastorale americana di Roth. Underworld di DeLillo. Vergogna di Coetzee».
E gli intellettuali?
«Non ce ne sono più. Qualcuno in televisione. E non mi stanno simpatici. Preferivo quando si chiamavano artisti».
La differenza?
«I primi giudicano, condannano, assolvono. I secondi fanno arte».
Tu scrivi: «Non c'è felicità che non chieda di essere risarcita con gli interessi». E i tuoi personaggi la felicità la pagano sempre.
«Esistono temperamenti, come molti miei personaggi e come il loro creatore, che vivono qualsiasi cosa lieta successo, denaro, amori come una sorta di insulto che sarà punito dall'invidia degli uomini o degli dèi. Personalmente mi sono attrezzato ad affrontare bene le infelicità che la vita ci riserva. E sono spiazzato quando arriva una piccola felicità».
L'infelicità funziona meglio in letteratura?
«Funziona meglio».
E il tempo? I tuoi personaggi sono sempre in balia del tempo.
«Perché il protagonista di un romanzo è sempre il tempo. Ed è anche la misura della loro grandezza. Ciò che ci emoziona in un romanzo è sempre la percezione del tempo che chi scrive riesce a farci provare. Fai una prova. Se, leggendo un romanzo, tu reputi plausibile l'invecchiamento di un personaggio, che nel giro di cento pagine passa dall'infanzia all'età adulta, allora quello è un buon romanzo. La controprova è che i romanzi d'avanguardia o il Nouveau Roman che aboliscono il tempo sono pessimi romanzi. Dickens si continua a leggere, Nathalie Sarraute no».
Tu scrivi: «Il Bello non è mai coerente, bensì eclettico, composito». Cos'è il Bello in letteratura?
«Un incontro tra verità ed eleganza. A un vero scrittore è chiesto nulla più che mettere in scena un briciolo di verità umana come fa Stendhal con l'interiorità dei suoi personaggi trasformando le loro ambizioni e i loro difetti in verità universali con eleganza. Con precisione e disinvoltura».
È questo lo stile in letteratura?
«Più o meno».
Quanto vale lo stile, cioè la scrittura, in un romanzo?
«Non so se ci sia una legge generale. Ma so che il mio romanzo ha 276 pagine. E ci ho messo cinque anni a scriverlo. Quindi fa 50 pagine all'anno».
Quattro pagine al mese.
«Capisci? Significa che le ho meditate con una partecipazione e un accanimento inaudito. E me lo dico da solo... Non volevo ci fosse una cacofonia, non volevo un'improprietà che fosse una. Non volevo avverbi né aggettivi inutili. Ho scritto con una tensione continua verso una prosa limpida e ironica».
Ci sei riuscito?
«Ditemelo voi. Io non lo so. Ma so che gli altri miei romanzi al confronto erano più verbosi, aggressivi, sarcastici. Più sporchi. Ora ho cambiato passo. Ho scelto di andare al cuore della narrazione attraverso lo stile».
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