"Negli anni ’60 la gente voleva essere incantata con droga, alcol, sesso... E il fascino falso di Marilyn"

James Ellroy ospite a Torino racconta le origini delle sue ossessioni nel romanzo «Gli incantatori» «Io non racconto l’America, io non racconto il presente, a me interessa il passato e il thriller»

"Negli anni ’60 la gente voleva essere incantata con droga, alcol, sesso... E il fascino falso di Marilyn"

da Torino. Depravati, star, attricette, poliziotti a cui piace scavare nel torbido, psichiatri, pervertiti, ragazze squillo. Ma su tutti si eleva l'icona più assoluta, il sogno della città degli angeli, Marilyn Monroe e la sua tragica fine, morta di overdose e di solitudine nel suo appartamento. A indagare su questo grande caso c'è Freddy Otash, detective corrotto, con la passione per le droghe, eroe-narratore dell'ultimo libro di James Ellroy Gli incantatori pubblicato da Einaudi. A rendere tutto ancora più complicato una strana coincidenza: lo stesso giorno dell'ultimo respiro di Marilyn viene liberata una starlette da poco rapita. Misteri, storie intricate, pezzi grossi a Washington, come John F. Kennedy e suo fratello Robert, e ancora personaggi contorti, insoliti e malvagi affollano le pagine di questo ultimo capolavoro del maestro del noir losangelino, autore tra gli altri di Dalia Nera, American Tabloid e L.A Confidential: Ellroy è tornato. Lo incontriamo a Torino. Indossa una camicia molto colorata, stringe la mano e sorride ironico.

Signor Ellroy, quali sentimenti le suscita Marilyn Monroe?

«Secondo me Marilyn Monroe non è una figura tragica anzi è una gran scassapalle, una persona vuota, semplicemente mi piaceva, ma il libro non è su di lei, è una delle tante persone che fanno parte della mia storia d'amore con Los Angeles».

Come fa una donna, come accade nella Dalia Nera o in quest'ultimo suo libro, a diventare un'ossessione?

«In realtà non c'è nessuna figura femminile che diventa un'ossessione per Freddy Otash che è l'eroe di questo libro, semplicemente a lui Marilyn Monroe piace. Ha poi delle relazioni amorose con tre donne, una inventata e due invece sono reali, una è Patricia Kennedy sorella dell'allora procuratore generale. Lui non è ossessionato da Marilyn Monroe è ossessionato dalle donne».

Come mai: Gli incantatori?

«Natasha, coach di recitazione di Marilyn, un personaggio realmente esistito è stupidamente innamorata di Marilyn Monroe ma è lei stessa che parla della sua vuotezza, della sua scarsissima profondità. Però Marilyn proietta questo incantamento di infima qualità che secondo me rappresenta gli inizi degli anni '60 in America, la gente voleva essere incantata con le droghe, con l'alcol, con il sesso».

Perché mescola fiction e non-fiction?

«Perché voglio riscrivere la storia secondo le mie specifiche».

Come procede nel suo lavoro quando ha in mente un libro?

«Intanto scrivo a mano perché non posseggo un computer, non ho un telefono cellulare, non vado su internet, ignoro il mondo digitale e poi soprattutto per un libro come questo che nella versione inglese è più di 400 pagine (in quella in italiano più di 600 Ndr) dedico tanto tempo e penso alla trama fino al più minuzioso dettaglio. Questo richiede un lunghissimo tempo in cui mi metto sdraiato sul sofà al buio e rifletto sulla storia e poi scrivo per circa sei mesi appunti sulla trama e solo dopo posso iniziare».

Che rapporto hanno i suoi personaggi con la morale?

«Hanno una morale molto dubbia, anche se sono quasi tutti religiosi. Freddy Otash è un copto della Chiesa orientale, due donne sono cattoliche e pure i Kennedy sono religiosi, nonostante questo la loro morale è molto incerta. Sono capaci di sentirsi in colpa e il secondo dopo sono spietati come tutti noi. Siamo tutti dei peccatori...».

Nei suoi libri ci sono spesso killer, trafficanti di droga, prostitute. Un'America senza eroi...

«L'America non è questa, i miei sono gialli, parlano di crimine, è un piccolo mondo all'interno di un altro piccolo mondo, ma i miei libri non hanno l'intento di raffigurare gli Stati Uniti nel loro complesso, non è così».

Lei utilizza un linguaggio scarno, nudo, a tratti crudo

«Io voglio creare delle storie molto cariche, al turbo, quindi cerco di rimuovere ogni eccessiva verbosità alla lingua. Non mi piace dire troppo. Io penso che il crime fiction nella sua forma migliore, e io sono il più grande scrittore di crime fiction, racconti un mondo fatto di persone mendaci, che prevaricano. Il ritmo è molto importante».

Qual è il più grande incubo e il più grande sogno della Città degli Angeli?

«Non parlo mai di Los Angeles come di un fenomeno perché è da lì che io vengo, l'unica cosa che posso dire è che la conosco perché sono di lì».

L'America è rimasta innocente in qualche aspetto?

«In realtà io non parlo dell'America oggi, non parlo della politica oggi, non mi interessa il presente, non me ne frega niente del presente, mi interessa il passato».

Quali autori l'hanno ispirata?

«L'alfa e l'omega del canone americano si chiama hard boiled. Dashiell Hammett ha scritto nel 1929 Piombo e sangue e 90 anni dopo io ho pubblicato Gli incantatori. Questi sono i due poli Dashiell Hammett e io. Per i suoi romanzi psicologici Patricia Highsmith: Il talento di Mr. Ripley, Sconosciuti in treno, Vicolo cieco.

Le piacciono scrittori italiani?

«Scrittori no, ma con la donna per cui mi sono trasferito a Denver, che è la mia seconda e terza moglie, perché ho sposato e divorziato dalla stessa donna due volte, e non abbiamo mai vissuto insieme: abbiamo due appartamenti sullo stesso piano. Con lei abbiamo guardato insieme Montalbano in tivù, ci piaceva il personaggio, l'ambientazione in Sicilia. Mentre lo guardi pensi che sia bello, però poi alla fine ti accorgi che è sempre la stessa cosa e diventa noiosissimo».

Che libri ha sul suo comodino?

«Rileggo un po' ossessivamente i libri della Highsmith. Lei ha un tema favoloso che ripete che è il tema dell'omosessualità maschile, un po' mi confonde, perché una donna abbia scritto quattro libri così potenti su questo».

Abbandonerebbe mai la sua Los Angeles?

«In realtà ho già vissuto in tanti altri posti.

A San Francisco, a Carmel in California, a Kansas City, anche nelle periferie di New York, mi piace molto Des Moines in Iowa».

Si alza l'intervista è terminata. Mi dice: «Ha un accento british». «Gli inglesi sono un po' snob», replico. E lui: «La Gran Bretagna in realtà ha paura degli Usa perché l'America governa il mondo e lei non più».

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