La violenza sulle donne è un fenomeno ancora diffuso. In un clima sempre più fosco, la data del 25 novembre acquisisce, dunque, una valenza maggiore. In questo giorno, dal 1999, si celebra la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne.
I dati Istat hanno il retrogusto di un bollettino di guerra e fotografano una realtà aberrante: il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della propria esistenza una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Il 20,2% ha subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale. Il 5,4%, invece, ha dovuto fare i conti con forme più gravi come lo stupro e il tentato stupro.
Secondo un'analisi svolta lo scorso maggio dal sito Guidapsicologi.it, confrontando i dati del lockdown con quelli dello stesso periodo del 2019, si è potuto osservare un aumento del 65% nelle ricerche finalizzate a scoprire quali sono i segnali per riconoscere se si è vittima di violenza psicologica. Perché, se il virus ha bloccato il mondo intero, non è riuscito a fermare i soprusi e le angherie contro il sesso femminile. Basti pensare che in un mese di lockdown la polizia per 117 volte si è fatta carico delle vittime. Queste, chiuse in casa con i loro aguzzini, hanno incontrato serie difficoltà a denunciare a causa, altresì, delle limitazioni imposte agli spostamenti.
Cosa avviene nella mente della vittima e in quella dell'aggressore? Quali sono i meccanismi psicologici che si celano dietro alla paura di chi tace e sopporta? A queste domande ha cercato di dare una risposta la psicologa e psicoterapeutica Patrizia Mattioli.
Innanzitutto è bene capire quali sono i segnali che indicano che una donna è vittima di violenza. Se le brutalità fisiche si palesano con lividi e segni sul corpo, quelle psicologiche, invece, sono più difficili da riconoscere. Generalmente una donna che subisce una violenza psicologica è una persona insicura, con bassa autostima dovuta alle mortificazioni subite, che si spaventa facilmente e che evita il contatto con gli altri, anche con gli individui a lei cari. L'isolamento sociale ha la doppia funzione di accondiscere le richieste del partner violento e di nascondere agli altri (e a se stessa) la gravità di quanto accade e di cui ci si vergogna.
Spesso la relazione della vittima con il suo carnefice si basa su una dipendenza affettiva. Il partner, che poi si rivela aggressivo, è stato inizialmente (e lo è anche dopo ogni episodio di violenza) amorevole e premuroso. Si instaura, così, una difficoltà a integrare i due atteggiamenti.
È come se la donna, di fronte al comportamento affettuoso, si dimenticasse che quello stesso soggetto le ha fatto del male, tendendo così a giustificare le motivazioni dell'angheria o ad attribuirsene la responsabilità. Ecco perché molte volte non si procede con la denuncia. Al pensiero di aver in un certo modo istigato l'aggressione, si aggiunge la paura di ulteriori ritorsioni, di non essere credute e la difficoltà di ammettere ad amici e parenti di aver sbagliato nella scelta del compagno.
Negli ultimi anni, fortunatamente, sono di più le donne informate, consapevoli di vivere una relazione tossica, ma non sanno come uscirne. Poi vi sono donne che chiedono aiuto per altri aspetti, minimizzando però il problema.
In questi casi gli psicologi cercano di stimolare la presa di consapevolezza del proprio bisogno di dipendenza che è quello che maggiormente ostacola il distacco da un partner aggressivo che, in certi momenti, viene percepito come molto protettivo.Esistono segnali precisi della violenza che, come si ricorda, è trasversale, ovvero riguarda chiunque a prescindere dal livello di studi e dal ceto sociale:
- soprusi giustificati dalla semplice appartenenza al genere femminile;
- linguaggio sessista;
- disuguaglianza uomo donna;
- angherie che inizialmente sono di tipo psicologico;
- offese, minacce, umiliazioni;
- aggressioni fisiche;
- aggressioni sessuali;
- controllo costante e stalking;
- generazione di senso di colpa nella vittima;
- isolamento sociale.
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