RomaDici Il sangue dei vinti, libro o film poco importa, e a sinistra, specie dalle parti di Rifondazione comunista, ma non solo, parte linsulto. «Porcheria revisionista», sentenziò Paolo Ferrero, riscuotendo gli applausi dell'Anpi. Ma non tutti, da quelle parti, la pensano così. Prendete Miriam Mafai, 83 anni portati con ironica eleganza, ebrea, già partigiana e comunista, editorialista di Repubblica, autrice di libri come Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale. Il film di Soavi, che esce oggi in una quarantina di copie distribuito svogliatamente da Raicinema, lei lha visto a ottobre 2008, quando partecipò a un vivace dibattito per lanteprima al Festival (ex Festa) di Roma. Per telefono, con la solita franchezza, ribadisce il giudizio di allora.
«Io scandalizzata? Offesa? Ma si figuri. Il sangue dei vinti racconta la spietata logica della guerra civile. Lo fa in modi diversi rispetto al libro di Pansa, forse intraducibile, così comè, sullo schermo». Dice proprio «guerra civile», una definizione a lungo respinta dal Pci, ma non da storici come Bobbio o Pavone. «Guardi, io ho il privilegio dell'età. Quegli eventi li ho vissuti sulla mia pelle. Per questo non ho difficoltà a dire una semplice cosa: sin dal 1945 la sinistra avrebbe dovuto ammettere che fu anche, non solo, guerra civile. Tra italiani delluna e dellaltra parte. Adesso, per fortuna, non è più un tabù».
La Mafai non sinoltra in giudizi estetici, «non faccio il critico», ma si capisce che il film in generale non le è dispiaciuto. «Lo rivedrò in tv nella versione lunga, quando passerà», avverte. «Ho apprezzato lidea di raccontare la storia di una famiglia spaccata a metà. La ragazza che aderisce come ausiliaria alla Repubblica di Salò, il ragazzo che va coi partigiani delle Brigate Garibaldi. Ne ho viste tante di famiglie così, divise, spezzate dalla guerra. Del resto ne ha parlato anche il segretario del Pd, Franceschini». La giornalista mette laccento su «qualche imprecisione storica»; le risulta, ad esempio, che «lesercito repubblichino non abbia mai usato direttamente le donne in combattimento». E tuttavia trova «affascinante» largomento: «Migliaia di ragazze si misero la divisa di un esercito che andava incontro alla sconfitta, mostrando unindipendenza psicologica che mi incuriosisce ancora oggi». Non basta. Gasparri, da destra, criticò il film, dicendo che avrebbe voluto vedere «più sangue dei vinti». Mafai: «In effetti, il libro riguarda soprattutto i massacri che andarono avanti per due anni, in minore o maggiore misura, dipende dai luoghi, ben oltre il 25 aprile, fino al 1947». Mentre il film di Soavi, a parte la cornice ambientata negli anni Settanta, non prende in esame quello strascico sanguinoso di vendette e regolamenti di conti. «In ogni caso, credo che questo film sia utile, faccia bene. La guerra è un evento terribile, tanto più se viene combattuta, come avvenne in quei due anni, tra italiani. Da un lato noi che volevamo cacciare linvasore tedesco, dallaltro loro che sostenevano le ragioni di quellinvasore. Fu una guerra atroce, feroce, senza pietà. Non a caso una delle canzoni partigiane più significative recita: Pietà lè morta. Bisogna smetterla di contare chi ne ha ammazzati di più e come».
Quanto alle possibili ricadute politiche, la Mafai non drammatizza. «Ho letto che Il sangue dei vinti ha subito qualche ritardo, alcuni attori si sono defilati, si parlò anche di boicottaggio. Francamente non mi spiego i motivi, e a questo punto poco mi interessa. Non mi pare un film scorretto, schierato o, peggio, revisionista. Certo, si possono avere gusti diversi, alcuni elementi di giallo magari rischiano dessere depistanti sul piano drammaturgico, la vicenda del commissario Dogliani è solo un pretesto. Ma la sostanza dei fatti è vera al cento per cento.
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