«Onorevoli colleghi, la situazione di un anno fa, quando voi mi faceste l’onore di eleggermi vostro Presidente, è oggi mutata. Correttezza vuole ch’io metta a vostra disposizione il mandato da voi affidatomi». Chissà. Forse, se l’avesse detta così, come la disse Sandro Pertini, correva l’anno 1969, ecco, forse il Parlamento si sarebbe inchinato alla coerenza, e avrebbe respinto le dimissioni di Gianfranco Fini. O magari no, magari visto il clima di invero scarsa cortesia istituzional-politica, gli avrebbero detto grazie e accomodati, come fece l’assemblea costituente quando, era il 1947, a rimettere il mandato fu Giuseppe Saragat.
Ma Fini avrebbe certo evitato di prestare il fianco a chi oggi lo accusa di poltronite acuta, costringendo a fare chapeau persino l’ex amico Silvio Berlusconi. Invece, al premier che segnalava come sia «venuta meno la fiducia nel suo ruolo di garanzia», Fini ha risposto prima a caldo con un: «Non mi dimetto, la presidenza della Camera non è nella disponibilità del presidente del Consiglio», e poi a freddo rafforzando il concetto: «Ovviamente non mi dimetto, perché è a tutti noto che il presidente deve garantire il rispetto del regolamento e l’imparziale conduzione dell’attività della Camera, non deve certo garantire la maggioranza che lo ha eletto». Vero. Di più: non solo il presidente della Camera non si può sfiduciare, ma, come annotava ieri il costituzionalista ed ex senatore Ds Andrea Manzella, «è eletto per l’intera legislatura: una volta accettato l’incarico è indifferente alla maggioranza che lo ha eletto e non ha alcun obbligo di rispondere di eventuali fratture politiche». Il dato è che nel coro di chi oggi grida all’inedito scandalo, «è la prima volta nella storia della Repubblica che un presidente del Consiglio chiede le dimissioni del presidente della Camera», ecco, in quel coro manca almeno una voce che faccia notare che, in effetti, fino a qui non ce n’era stato bisogno. Era il 7 luglio del 1969 quando Pertini scrisse l’addio in nome del fallimento del Psu, partito nel quale era stato eletto. Pertini ripeté il gesto una seconda volta nel 1975, dopo una polemica di Ugo La Malfa contro gli sprechi dell’amministrazione della Camera. In entrambi i casi i deputati respinsero all’unanimità le dimissioni, ma agli atti sono rimaste due lettere di addio dettate solo, soprattutto nel primo caso, da fattori politici.
«Il problema non è il regolamento - avverte lo storico Ugo Finetti -, ma la credibilità istituzionale. La costituzione di un nuovo gruppo parlamentare altera l’equilibrio dell’assemblea. Se ad alterare quell’equilibrio è il presidente stesso dell’assemblea, l’incompatibilità scatta automaticamente». Il precedente di Saragat è lontano nel tempo e magari fa sorridere accostare le vicende di queste ore alla scissione di palazzo Barberini, eppure fa riflettere: «Saragat, da co-fondatore del partito socialista, quando litigò con Pietro Nenni dando vita ai nuovi gruppi parlamentari del partito socialista dei lavoratori italiani, automaticamente si dimise da presidente dell’Assemblea costituente» annota Finetti, che aggiunge: «Nessuno gli chiese di dare le dimissioni, ma lui, che della nuova formazione politica era il leader politico pur non guidando il gruppo nell’Assemblea, ritenne di non essere più compatibile con quel ruolo».
Allora l’assemblea accolse le dimissioni, e al posto di Saragat venne eletto il comunista Umberto Terracini.
«Sì, Togliatti ne approfittò - sorride Finetti -, e c’è da credere che finirà così anche questa volta: il Pd difenderà Fini ancora per un po’, per mettere il cappello su quella poltrona. Scommettiamo che ci va Piero Fassino?».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.