Scatta la difesa dell’«onorevole paga» E i magistrati preparano lo sciopero

Roma«Quei due ai piani alti si fanno belli e noi la pigliamo in quel posto». Buvette di Montecitorio, ore 14.15. Trangugiato senza problemi il tramezzino d’ordinanza, un deputato non riesce però a mandar giù l’amaro calice del taglio alla propria onorevole busta paga. «È pura demagogia», incalza un collega, che (guarda caso) pretende anche per sé l’anonimato: «Fini e Schifani pensassero a dimezzare gli enormi sprechi dei due Palazzi, invece di penalizzare pure chi ha presenze in Aula di quasi il 100%». Tanto da dover «rinunciare a svolgere la libera professione, di certo più remunerativa».
Sia chiaro, non tutti la pensano così. «Nessun problema, è una misura necessaria per dare un bel segnale», commenta Amedeo Laboccetta (Pdl), che avrebbe comunque «colpito di più i supermanager». «Sul fatto che i parlamentari, espressione del Paese, debbano dare l’esempio, non ci piove, e su questo alla fine si avrà l’unanimità», rimarca Roberto Rao (Udc), che invita però i presidenti delle Camere a «difendere» pure il «ruolo dei parlamentari» e ad immaginare un meccanismo virtuoso per chi lavora sodo anche in Commissione (verrà in parte accontentato). «Si può fare tranquillamente a meno di mille euro al mese», spiega il vicecapogruppo del Pdl, Osvaldo Napoli, che non nasconde i malumori: «Detto questo, c’è chi obietta di aver già pianificato il pagamento di alcuni debiti». Ovvero, mutui, investimenti o quant’altro.
È forse per questa ragione che mugugni e lamentele si moltiplicano, anche nella Lega, dove qualcuno, un po’ a sorpresa, se la prende sotto sotto con Roberto Calderoli, il primo a lanciare la crociata: «Una mezza boiata, si rischia di avvalorare l’immagine esterna di puttanieri e mangiapane a tradimento, se non si lega il tutto alla produttività». «Toglietemi pure i soldi, ma smettiamola con questa storia che non facciamo nulla, perché tra noi ci sono seri professionisti», rintuzza un senatore, al termine di un conciliabolo ristretto, sull’argomento, a Palazzo Madama.
Insomma, la rivolta della casta politica (più in là parleremo dei magistrati) è servita. Nonostante Renato Schifani e Gianfranco Fini tentino di limare, ove possibile, per fare cassa. La premessa del loro piano d’azione - venuta fuori dal vertice di ieri pomeriggio, a cui hanno preso parte insieme a rispettivi vicepresidenti e questori - è che le spese di Senato e Camera non sono «eccessive o improduttive, trattandosi di costi essenziali per il funzionamento della democrazia», anche alla luce dei risparmi già fatti autonomamente in passato. Ma in ogni caso, seconda e terza carica dello Stato, in attesa di veder pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto correttivo, definiscono «d’intesa» gli «indirizzi» generali, che «determinino una riduzione della spesa nella misura indicata dalla manovra», quindi il 10%. Si andrebbe così ad incidere - il condizionale è d’obbligo, perché nulla è stato ancora deciso in maniera definitiva - su retribuzione e quiescenza del personale, stanziamenti di bilancio non vincolati da contratti e trattamento economico di senatori e deputati. Ai quali non verrebbe toccata l’indennità, già tassata e su cui si calcolano le detrazioni pensionistiche, ma sarebbero decurtate le voci aggiuntive: rimborso delle spese accessorie, contributo eletto-elettore e diaria di soggiorno (4.003 euro al mese), che verrebbe corrisposta secondo un meccanismo a scalare in due direzioni. Si partirebbe dal 50% (dimezzamento secco), ma la voce salirebbe, fino a raggiungere potenzialmente il 100%, qualora si sia sempre presente in Aula e Commissione (se ne tiene già conto al Senato). Altrimenti, si rischierebbe pure di non beccare nulla.
Ma torniamo alla rivolta della casta. Che accomuna politici e magistrati. Lo testimonia la nota dell’Anm (che scrive nel frattempo al capo dello Stato, Giorgio Napolitano), in cui si «proclama lo stato di agitazione» e si riserva di proporre «immediate iniziative di protesta contro la manovra economica del governo, che contiene misure inaccettabili». Tra cui, quelle relative alle «retribuzioni», che verrebbero «colpite tre volte: con il blocco dei meccanismi di progressione economica, con il blocco dell’adeguamento alla dinamica dei contratti pubblici e, addirittura, con un prelievo forzoso sugli stipendi» (quello previsto per i redditi di importo superiore a 90.000 euro). Insomma, interventi «incostituzionali e palesemente punitivi nei confronti dei magistrati».

Replica il Guardasigilli, Angelino Alfano: «Non conosco le loro posizioni, ma voglio sottolineare che questa manovra richiede un sacrificio al Paese nel momento in cui bisogna fronteggiare una crisi mondiale». Come dire, pure le toghe dovranno stringere la cinghia. Anche sui magistrati, Napoli dice la sua: «Reputo scandaloso che l’Anm si dichiari sott’attacco e che i magistrati la mettano sempre sul piano politico».

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