Scegliere la parte sbagliata: vite e morti di collaborazionisti

Ian Buruma attraverso tre biografie scomode riflette sulle rimozioni e le scelte politiche di convenienza fatte dopo il conflitto

Scegliere la parte sbagliata: vite e morti di collaborazionisti
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Collaborazionisti? Contrariamente a ogni logica, più passa il tempo, più gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, invece di sbiadire nella memoria, continuano a suscitare emozioni e a dividere, nonostante la vulgata abbia consacrato i vincitori e condannato i vinti. Una superficiale interpretazione della Storia in bianco e nero non regge, però, a un'analisi più approfondita, come dimostra l'ultimo saggio del giornalista e scrittore Ian Buruma, The Collaborators. Deception and Survival in World War II, (Atlantic Books pagg 308). L'autore esamina le vite sregolate di tre collaborazionisti: il viveur finlandese Felix Kernsten, diventato il massaggiatore e confidente del capo delle SS Heirich Himmler; l'ebreo olandese Friedrich Weinreb, che durante l'occupazione si arricchì millantando piani di fuga per i suoi correligionari grazie alle sue amicizie tra gli ufficiali tedeschi; e la Principessa sino-giapponese Kawashima Yoshiko, che si illuse di poter restaurare la dinastia Manchu sul trono dell'effimera nazione Manchukuo, creata dall'occupante giapponese. I tre personaggi sono uniti da un'ambigua attrazione per l'occupante straniero, attrazione che, sottolinea Buruma, fu comunque ben più vasta e complessa di quanto non si sia voluto far credere nel dopoguerra.

La maggior parte dei collaborazionisti, continua Buruma, era composta da persone spinte dalle più disparate motivazioni, dall'ambizione all'idealismo, dal desiderio di potere alla ricerca di emozioni, dal servilismo alla paura. Le tre figure descritte nel libro, però non rientrano chiaramente in nessuna di queste categorie, e nelle loro vite troviamo mischiate massicce dosi di ingenuità, opportunismo, avidità, e furbizia, qualità che, almeno nei casi di Kersten e Weinreb, gli permisero di sopravvivere alle epurazioni del dopoguerra. Kawashima Yoshiko, la più idealista, finì, invece, tragicamente e romanticamente, come in fondo aveva vissuto. Condannata come criminale di guerra da un tribunale cinese e giustiziata nel 1948 con un colpo alla nuca, lungi dall'essere esecrata come spia e traditrice, è diventata oggi il motore di una vera e propria industria culturale.

Dalla sua morte, infatti, la Mata Hari d'Oriente è stata, in Giappone, il soggetto di almeno quattordici saggi storici, quattro romanzi, undici commedie, otto film, cinque serie televisive, quattro manga, un musical e persino un videogioco. Evidentemente, nel Paese del Sol Levante, la memoria storica non ha censurato come in Occidente, condannando i vinti a una perpetua damnatio memoriae, sempre più intransigente e assoluta con il passare degli anni.

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