«Scherzi a parte, vi spiego come si fa la Tv»

L’accendi e ti accende. È la televisione. Che ormai ti accende sì, ma di rabbia. La maggior parte dei programmi, cosiddetti generalisti, fanno cadere le braccia; così ci siamo trasformati in un popolo di «mutilati» con il telecomando tra i denti. Devoti solo al dio zapping. E, saltando da un canale all’altro, ci sorprendiamo a fare sempre la stessa domanda: «Ma quello lì come è arrivato in televisione?». «Quello lì», di solito, è un tizio o una tizia che si vanta di «essere se stesso», di «essere sincero», «genuino» e - immancabilmente - «solare».
Noi, seduti in poltrona, ci chiediamo ingenuamente se, per andare in televisione, non ci voglia qualcosa di più: preparazione, studio, esperienza, impegno, sacrificio e tante altre cose. Peccato che non esista una scuola in grado di insegnare che un artista e un tronista sono cose diverse, nonostante la rima possa far credere il contrario.
In Italia nessuno si è mai posto il problema. Un po’ perché il falso mito del «personaggio preso dalla strada» è duro a morire, un po’ perché un’iniziativa che punti sulla creazione di «veri professionisti» necessità impegno e investimenti non certo trascurabili. Basterebbe questa considerazione per guardare - con una buona dose di curiosità e rispetto - al progetto «Professione.TV», ideato da Alessandro Ippolito, uno che il mondo televisivo lo conosce bene da almeno trent’anni. L’ultima sua fatica, come produttore, si chiama «Terapia d'urgenza», in onda dal 26 giugno su Rai 2.
Ippolito, dopo essere stato giornalista «on tre road», autore e regista di programmi di successo in Rai, Mediaset («Telemike», «Parola mia», «W le donne», «Scherzi a parte», «Stranamore» e tanti altri) ha deciso di avviare un corso unico nel suo genere.
«Per iscriversi al corso - ci spiega Ippolito - non sono necessari titoli di studio specifici. Cerco allievi grintosi, determinati, con una vera, grande passione per la televisione. In Italia non ci sono scuole di televisione. Sì ci sono corsi di montaggio, di sceneggiatura, ma per lo più in Italia si insegna il cinema. Questo è veramente ridicolo. Si insegna qualcosa che non ha nessuna prospettiva di lavoro. La televisione viene vista come un lavoro di serie B rispetto al cinema. Come produttore mi ritrovo spesso a ricevere ragazzi che cercano lavoro e che ammettono candidamente di non amare la Tv. La televisione è una professione difficilissima, richiede un grande mestiere, ma non c'è nessuno in Italia che insegni questo».
Quanti saranno i corsisti ammessi a «Professione.TV»?
«Quattro classi da dodici allievi ognuna».
Quanto costerà ai ragazzi frequentare il corso?
«Trecentonovanta euro al mese per dieci mesi. Non facciamo come altri che chiedono anticipatamente almeno la metà del costo del corso. Un mese anticipato e basta».
Quanto durerà il corso?
«Dieci mesi, 6 ore alla settimana più le trasferte».
Su cosa verterà il colloquio che avrai con gli aspiranti corsisti?
«Devo appurare non solo la preparazione ma anche la sensibilità, la predisposizione, le motivazioni che spingono un giovane a impegnarsi per un così lungo periodo in un corso difficile e faticoso come il mio. Devo essere certo che ogni allievo non abbia una visione di questo lavoro poco corrispondente alla realtà. Devo mettere insieme classi di allievi omogenee. Dovrò sbattermi molto per questi ragazzi, devo cercare di capire se per ognuno di essi ne vale veramente la pena».
È vero che gli scherzi di «Scherzi a parte», programma che hai contribuito a lanciare, sono concordati con le presunte «vittime» dello scherzo?
«Questa domanda è vecchia come la trasmissione. La risposta è sempre la stessa: i miei non lo erano, non mi sarei mai divertito».
Cosa ti fa venire in mente la parola velina?
«Ragazza in cerca di notorietà. Questa parola per me ha una connotazione quasi malinconica. Diventare velina non è un progetto, è un sogno, un’illusione, una speranza. Imparare a fare televisione è un progetto. Anche molto serio».
Che differenza c'è tra realtà e reality?
«La realtà è quello che ti accade quando fai una coda in posta. Il reality è una ragazza molto sexy davanti a te nella stessa coda».
Sostieni che «i raccomandati non spariranno mai». È un’affermazione che ti crea imbarazzo?
«Imbarazzo? Per cosa? I raccomandati sono e saranno sempre dappertutto. Ma se valgono, si può provare nei loro confronti solo un po' di gelosia per il fatto che le prime porte, quelle più difficili, gli si sono aperte con più facilità. Imbarazzanti sono i raccomandati che non valgono una cicca».
Non temi, con il tuo corso, di assecondare false illusioni o, peggio, di creare una fabbrica di disoccupati?
«Ma figurati, la televisione è sempre più in espansione, i referenti continuano ad aumentare, crisi o non crisi i magazzini esauriscono le scorte. La televisione ogni giorno consuma quello che ha comprato e quello che produce. Di professionisti ci sarà sempre più bisogno. Di professionisti, però, di gente che conosca il mestiere. Le mezze tacche fanno perdere solo denaro. E soldi da buttare non ce ne sono, neanche in tv».
Cosa ami e odi di più della televisione e del sistema informativo?
«Amo la straordinaria possibilità di vedere e di documentarmi in tempo reale su tutto quello che sta accadendo nel mondo intero. Credo ci sia sempre meno spazio per le nefandezze perché ormai tutto è davanti agli occhi di tutti. Odio, ma odio sul serio, profondamente, la tendenza universale a gonfiare ogni notizia, questa ricerca continua del sensazionale o dello scandaloso. Mi fa proprio imbestialire questo modo pecorone di stare su una vicenda e di allungarla finché tira, indipendentemente dai danni che può spesso fare tutta questa ribalta ai protagonisti».
Che differenza noti tra il giornalismo televisivo e quello della carta stampata?
«Il primo si muove con la spada, può essere più aggressivo, ha grandi possibilità di manipolazioni o di inganno. Il secondo gioca di fioretto, ti permette di pensare o di farti un'idea tua. Solo il titolo può ingannare o manipolare la notizia. È lì spesso che i giornali imbrogliano. Tanti articoli non dicono niente di quello che è scritto nei titoli. Ma gli italiani purtroppo spesso leggono solo i titoli dei giornali».
Questo rapporto, a tuo avviso, com'è cambiato nel corso degli anni?
«Purtroppo la carta stampata cerca molto spesso di imitare la televisione. Alcuni giornali sono davvero rozzi e disonesti, illeggibili. E purtroppo aggiungo per i pigri lettori le idee correnti sono quelle più facili da assimilare e da condividere. C'è un programmino (per l'Iphone mi sembra) che ti permette di fare un discorsetto politico con frasi fatte che vanno bene per tutte le occasioni. È molto divertente. Oggi basta scrivere che “bisogna pensare ai giovani”, che “molte famiglie non riescono ad arrivare alla fine del mese”, basta scrivere questi luoghi comuni elettorali per trovare immediatamente consenso. Televisione e giornali, ahimè, si somigliano sempre di più. Questo è davvero penoso».


Perché tutti i direttori di giornali e telegiornali fingono di rammaricarsi del fatto che nei mass media si dia troppo spazio alla politica, salvo poi non fare nulla per invertire questa tendenza?
«Ma scusa, non è la politica quella che tiene in piedi i giornali? Le fondamenta dei mass media non sono fatte dalla politica? È come dire a un produttore di scarpe di non parlare delle sue scarpe».

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